"È qui. Lo seppellirò dopo la nostra conversazione. Questo non è un luogo per marcire. O, forse, è il posto perfetto. Non so. Potremo valutarlo insieme, più tardi."
"Sei diventato all'improvviso democratico?"
"Tu hai detto che stai cambiando. Ebbene, anch'io."
"C'è una ragione particolare?"
"Ci arriveremo. Prima..."
Sartori lanciò un'occhiata verso la porta che si chiuse sbattendo, facendoli sprofondare nell'oscurità.
"Non ti spiace, vero?" disse Sartori. "Questa non è una conversazione che possiamo fare guardandoci negli occhi. Specchiarsi è già abbastanza sgradevole..."
"A Yzordderrex questo non sembrava dispiacerti."
"Lì ero una persona. Qui mi sento... immateriale. Sono rimasto veramente impressionato da quello che hai fatto a Yzordderrex, davvero. Hai detto una sola parola e tutto è crollato."
"Opera tua, non mia."
"Oh, non essere ottuso. Sai che cosa dirà la storia. Quella se ne farà un baffo della politica. Dirà che il Riconciliatore è arrivato e le mura sono crollate. E tu non potrai smentire. La storia nutre la leggenda; ti rende messianico. E questo è proprio quello che vuoi, non è vero? La questione è: se tu sei il Riconciliatore, chi sono io?"
"Non dobbiamo essere nemici."
"Non ti ho forse detto la stessa cosa a Yzordderrex? E tu non hai forse cercato di uccidermi?"
"Avevo le mie buone ragioni."
"Dimmene una."
"Hai impedito la prima Riconciliazione."
"Non era la prima. Ci sono stati altri tentativi, a quanto ne so."
"Era la prima volta per me. Il mio Capolavoro. E tu l'hai distrutto."
"Da chi lo hai saputo?"
"Da Lucius Cobbitt," rispose Gentle.
Seguì un silenzio e, in quel momento, Gentle pensò di aver sentito muoversi l'oscurità con un suono simile alla seta sulla seta. Ma la sua testa non era mai del tutto silenziosa in quei giorni, e prima che egli fosse riuscito a individuare qualcosa in quel fruscio, Sartori aveva già ripreso il controllo di sé.
"Dunque, Lucius è ancora vivo," aggiunse.
"Solo nel ricordo. A Gamut Street."
"Quella testa di rapa di Riposino ti ha istruito ben bene, vero? Gli farò sputare sangue." Sospirò. "Mi manca Rosengarten, sai. Lui sì che era veramente leale. E Racidio e Mattalaus. Avevo delle persone in gamba a Yzordderrex. Gente di cui potevo fidarmi; gente che mi amava. È la tua faccia, credo; ispira devozione. Devi averlo notato. È il divino che è in te, oppure è solo il tuo modo di sorridere? Non voglio ammettere che l'uno sia conseguenza dell'altro. I gobbi possono essere santi e i belli, invece, perfetti mostri. Non sei d'accordo?"
"Certamente."
"Vedi come ci intendiamo bene? Siamo qui al buio e ci parliamo come due amici. Penso sinceramente che se mai uscissimo alla luce, , potremmo imparare addirittura ad amarci, dopo un po'."
"No, quello non potrà accadere."
"Perché no?"
"Perché ho del lavoro da sbrigare e non ti permetterò di farmi ritardare."
"Hai fatto tanto male, l'ultima volta, Maestro. Ricordatelo. Mettitelo in testa. Ricordati com'era, vedere l'In Ovo che buttava fuori..."
Dal suono della voce di Sartori, Gentle si rese conto che doveva essersi alzato in piedi. Ma era comunque difficile averne la certezza dato che il buio era praticamente totale. Si alzò anche lui, spingendo indietro la sedia.
"L'In Ovo è un posto osceno," continuò Sartori. "E credimi, non vorrei proprio che sporcasse questo Dominio. Ma temo che sia inevitabile."
Adesso Gentle era sicuro che ci fosse qualcosa di strano. La voce di Sartori non proveniva da una sola fonte, ma era sottilmente disseminata in tutta la stanza, come se lui stesso si stesse diffondendo nell'oscurità.
"Se lasci questa stanza, fratello... se mi lasci da solo... si scateneranno tali orrori nel Quinto..."
"Non commetterò altri errori questa volta," affermò Gentle.
"Chi parla di errori?" replicò Sartori. "Io sto parlando di ciò che farò per il bene della giustizia, se tu mi pianterai in asso."
"Allora, vieni con me."
"Perché? Per essere tuo discepolo? Sta' attento a quello che dici! Io ho lo stesso tuo diritto a essere chiamato Messia. Perché dovrei diventare un insignificante apostolo? Fammi la cortesia di capire almeno questo."
"Allora devo ucciderti?"
"Puoi provarci."
"Sono pronto a farlo, fratello, se mi costringi."
"Anch'io. Anch'io sono pronto."
Non c'era motivo di continuare la discussione, pensò Gentle. Se non gli restava che uccidere quell'uomo, come sembrava, allora lo doveva fare quanto prima e quanto più rapidamente possibile. Ma aveva bisogno della luce. Si diresse verso la porta con l'intenzione di aprirla, ma qualcosa lo colpì in faccia. Sollevò la mano per cacciarlo via, ma l'oggetto era già sparito verso il soffitto. Che tipo di difesa era quella? Quando era entrato nella stanza, credeva che non ci fosse nessun altro essere al di fuori di Sartori. L'oscurità era inerte. O aveva scambiato qualche forma di vita illusoria per un'emanazione della volontà di Sartori, oppure il suo doppio aveva usato il buio per nascondere qualche essere da lui evocato. Ma che cosa? Non vi erano state invocazioni verbali, né alcun segno di incantesimo. Se Sartori era riuscito a chiamare un difensore, doveva essere inconsistente e privo di intelligenza. Gentle lo sentì sbattere contro il soffitto come un uccello cieco.
"Pensavo fossimo soli," disse.
"La nostra ultima conversazione richiede dei testimoni. Altrimenti, come farà il mondo a sapere che io ti ho dato una possibilità di salvarlo?"
"Un biografo? In questo momento?"
"Non esattamente..."
"Che cosa allora?" domandò Gentle tendendo la mano verso la parete e facendola poi scivolare in direzione della porta. "Perché non me lo fai vedere?" aggiunse mentre stringeva la maniglia della porta. "O ti vergogni?"
Detto questo, aprì non uno ma tutti e due i battenti della porta. Il fenomeno che seguì fu più sorprendente che atroce. La fievole luce dell'esterno si riversò in un istante nella stanza, come latte succhiato da una mammella che venisse a riempire quell'interno vuoto. Oltrepassò Gentle, dividendosi, sparpagliandosi in una decina di punti in tutta la stanza, in alto e in basso. Le maniglie sfuggirono di mano a Gentle e le porte si richiusero sbattendo rumorosamente.
Gentle si voltò verso il centro del locale e sentì che il tavolo veniva spostato. Una luce fievole si era posata su ciò che vi giaceva sotto. Era Godolphin, sventrato, le budella di fuori, i reni sugli occhi, il cuore sull'inguine. Intorno al corpo vi erano le entità che quel corpo aveva attirato, intente a trasportare i frammenti di luce rubati attraverso la porta. Nessuno di quegli esseri aveva un senso per Gentle. Non avevano membra riconoscibili; né vi era in loro traccia di lineamenti e, nella maggior parte dei casi, neppure di teste su cui quei lineamenti avrebbero potuto fissarsi. Erano frammenti privi di senso, alcuni raggrumati insieme come i sedimenti di una tubatura; altri, come frutti gonfi, si dividevano in continuazione.
Gentle guardò in direzione di Sartori. Non aveva preso della luce per sé, ma aveva sopra la testa un grappolo brulicante di vermi che irradiava verso il basso un bagliore malsano.
"Che cosa hai fatto?" gli chiese Gentle.
"Ci sono delle cose che un Riconciliatore non riuscirà mai a sapere. Eccone un esempio. Queste bestie sono Oviati. Peripeziari. Con un cadavere ormai freddo non puoi evocare le bestie più efficaci. Ma queste cose sanno essere servizievoli, e né io né tu abbiamo mai chiesto altro ai nostri compiici, né ai nostri amati."
"Bene, adesso me li hai mostrati," lo interruppe Gentle. "Puoi mandarli via."
"Oh, no, fratello. Voglio che tu veda che cosa sanno fare. Sono davvero creature infime, ma ti fanno ammattire con i loro trucchi."
Sartori guardò in alto e il grappolo di spregevolezza sopra la sua testa scese da quel nido e sembrò muoversi in direzione di Gentle. Ma il suo obiettivo non era il vivo, bensì il morto. In un attimo fu intorno al collo di Godolphin mentre nello spazio sovrastante si formava un'alleanza di creature sue simili che si condensava in una nuvola vomitevole. Il grappolo si strinse come un cappio e poi si sollevò alzando il corpo di Godolphin. I reni caddero dagli occhi, che rimasero aperti. Il cuore si staccò dall'inguine; c'era una ferita dove una volta si trovava la virilità dell'uomo. Poi, ciò che rimaneva delle interiora fuoriuscì dalla carcassa, avvolto in una gelatina di sangue freddo. I primi Peripeziari si disposero a patibolo per il cappio ascendente e, tenendolo in mezzo a loro, si sollevarono finché i piedi del cadavere non si staccarono da terra.
"È osceno, Sartori," esclamò sconcertato Gentle. "Fermali."
"Non è troppo carino, vero? Ma, pensa, fratello, pensa che esercito potrebbero formare... Non si può guarire da un orrore del genere, nemmeno vedendolo un miliardo di volte."
Fece una pausa, poi riprese, in tono di genuina curiosità: "Oppure tu potresti? Sapresti liberare il povero Oscar? Dai morti, intendo. Sapresti farlo?" Lasciò il suo angolo all'altro capo della stanza, e si avvicinò a Gentle: sul suo viso illuminato dal grappolo di Oviati c'era un'espressione divertita. "Se puoi farlo," aggiunse, "ti giuro che diventerò il tuo discepolo modello. Davvero." Aveva superato il cadavere sospeso in aria e si trovava ormai solo a qualche passo da Gentle. "Te lo giuro," ripeté.
"Fallo scendere," ordinò Gentle.
"Perché?"
"Perché è una cosa insensata e patetica."
"Forse anch'io sono così," affermò Sartori. "Forse è come sono stato io sin dall'inizio, senza essermene mai reso conto."
Questa era una nuova tattica, pensò Gentle. Cinque minuti prima, quell'uomo gli aveva richiesto il rispetto dovuto a un aspirante Messia; adesso, invece, sguazzava nell'autocommiserazione.
"Ho così tanti sogni, fratello. Oh, quante città ho immaginato! E imperi! Ma non ho mai potuto liberarmi di quel dubbio tormentoso, sai? Un verme nell'anticamera del cervello continuava a ripetere: vedrai, non porterà a nulla, non servirà a nulla. E sai cosa? Quel verme aveva ragione. Tutto ciò che ho fatto era sin dall'inizio destinato a fallire, a causa di ciò che siamo l'uno per l'altro."
Tragico, aveva detto Clem descrivendo lo sguardo di Sartori, quando era fuggito dai sotterranei. E, forse, in effetti lo era. Ma cosa era accaduto che lo aveva tanto depresso? Doveva farglielo dire adesso o mai più.
"Ho visto il tuo impero," replicò Gentle. "Non è crollato per una condanna imposta da altri. Sei tu che l'hai costruito con la merda. Ecco perché è crollato."
"Ma non capisci che proprio quella era la condanna? Io ero l'architetto ed ero anche il giudice che l'ha ritenuto senza valore. Mi sono messo contro di me sin dall'inizio e non me ne sono mai reso conto."
"E adesso te ne rendi conto?"
"Non potrebbe essere più evidente."
"Perché? Riconosci te stesso in questo marciume? È così?"
"No, fratello," rispose Sartori. "È quando vedo te..."
"Me?"
Sartori lo fissò mentre gli occhi gli si riempivano di lacrime. "Lei mi ha scambiato per te..." mormorò.
"Judith?"
"Celestine. Non sapeva che c'erano due di noi. Come poteva? Perciò, quando mi ha visto, era contenta. Almeno all'inizio."
Si avvertiva un dolore, in quelle parole, che Gentle non aveva previsto e che non era finzione. Sartori stava soffrendo davvero come un cane.
"Poi ha sentito il mio odore," continuò. "Mi ha detto che puzzavo di malvagità e che la disgustavo."
"E che te ne importa?" domandò Gentle. "La volevi uccidere comunque."
"No," protestò Sartori. "Non lo volevo affatto. Non le avrei torto un capello se lei non mi avesse attaccato per prima."
"Tutto a un tratto sembri quasi buono." , "Naturalmente."
"Non capisco perché."
"Non hai detto che siamo fratelli?"
"Sì."
"Allora lei è anche mia madre. Non ho diritto di essere amato anch'io, allora?"
"Madre?"
"Sì. Madre. Lei è tua madre, Gentle. È stata violentata dall'Imperscrutabile, e tu sei il frutto di quell'unione."
Gentle era troppo sconcertato per rispondere. La sua mente stava cercando di mettere insieme i pezzi più remoti della sua esistenza. Tutto si ricomponeva con quella rivelazione e la risoluzione lo colmava d'una pienezza incontenibile.
Sartori si asciugò il viso con il dorso della mano. "Io sono nato per essere il Cattivo, fratello," aggiunse. "L'Inferno opposto al tuo Paradiso. Capisci? Ogni mio piano, ogni mia ambizione è una beffa perché la parte di me che rappresenta te vuole amore, gloria e grandi opere, e la parte di me che rappresenta nostro Padre sa che si tratta di merda e la distrugge. Io sono il distruttore di me stesso, fratello. Tutto ciò che posso fare è convivere con la distruzione sino alla fine del mondo."
Nell'atrio, sei piani più in basso, i liberatori di Celestine avevano, dopo molti tentativi, persuaso la donna a uscire dal labirinto e tornare alla luce. Sebbene fosse debole quando Clem era entrato nella sua cella, aveva opposto una certa resistenza ai suoi tentativi di persuaderla, dicendogli che non voleva avere niente a che fare con loro. Preferiva rimanere sotto terra, aveva detto, e morire lì. Ma Clem era pratico di persone recalcitranti e sapeva come trattarle. Non perse tempo a discutere con lei, ma non mollò. Rimase sulla soglia e le disse che probabilmente aveva ragione, che non c'era nulla di bello nel rivedere il sole. Dopo un po' Celestine stessa si oppose a quell'affermazione e disse che non la pensava affatto così, che se lui aveva un minimo di decenza, doveva aiutarla. Voleva che rimanesse lì come un animale, gli chiese, rinchiusa al buio? Clem ammise che la colpa era sua ma che ora, se lei desiderava uscire, avrebbe fatto quello che poteva.
La tattica ebbe l'effetto sperato e Clem ordinò a Monday di portare la macchina di Jude di fronte alla porta principale della Torre, quindi si adoperò per aiutare Celestine a uscire. Ci fu un momento delicato sulla porta della cella quando la donna, posando gli occhi su Judith, quasi si pentì della decisione di andarsene e disse di non voler nemmeno vedere quella donna corrotta, indicandola. Jude rimase in silenzio e Clem, sempre molto attento, la mandò a prendere la coperta dalla macchina, mentre lui scortava Celestine verso le scale. Fu un'ascesa lenta: più volte Celestine chiese a Clem di fermarsi, aggrappandosi rigida a lui e confidandogli che tremava non per paura, ma semplicemente perché il suo corpo non era più abituato a tanta libertà, e perciò se qualcuno, in particolare quella donna corrotta, avesse avuto qualcosa da dire sui suoi tremori, lui doveva zittirlo.
Così, ora aggrappandosi a Clem ora scostandolo, ora rallentando ora accelerando con un'energia soprannaturale, la prigioniera di Roxborough lasciò la propria cella dopo due secoli di segregazione e si avviò a incontrare la luce.
Ma le sorprese della Torre, ai piani bassi come a quelli alti, non erano ancora finite. Mentre Clem scortava Celestine attraverso l'atrio, si fermò attratto dalla porta che aveva di fronte, o piuttosto dalla luce solare che ne proveniva. Una luce piena di particole: pollini e semi di alberi e piante del giardino; polvere della strada adiacente. Sebbene fuori non soffiasse che una lievissima brezza, tutti gli elementi in quel raggio di luce erano in subbuglio.
"Abbiamo visite," osservò Clem.
"Qui?" chiese Judith.
"Lassù," rispose Clem.
Jude guardò la luce. Sebbene non riuscisse a vedere nulla che potesse somigliare a una figura umana, le particelle non si muovevano a caso. C'era in quel vorticare un principio di organizzazione e Clem, almeno così sembrava, lo comprendeva.
"Taylor," disse con un tono di voce intriso di commozione. "Taylor è qua." Guardò Monday che, sebbene nessuno glielo avesse chiesto, era corso in aiuto per sollevare il peso di Celestine. La donna, che era di nuovo caduta in stato di incoscienza, alzò il capo e si guardò in giro, mentre Clem cominciò ad avviarsi verso la porta illuminata.
"Sei tu, non è vero?" mormorò dolcemente.
In risposta, l'aria accelerò il suo movimento.
"Lo immaginavo," aggiunse Clem, fermandosi a un paio di metri dall'agglomerato di particelle.
"Che cosa vuole?" domandò Judith, "Ce lo puoi dire?"
Clem si girò a guardarla con un'espressione che rivelava a un tempo timore reverenziale e paura. "Vuole che lo lasci entrare," rispose. "Vuole venire qui." Si batté il petto. "Dentro di me."
Jude sorrise. Quella giornata aveva portato ben poche buone notizie, ma certo quella lo era: un'unione che lei non avrebbe mai creduto possibile. Clem esitava ancora, mantenendosi a una certa distanza dalla luce.
"Non so se posso farlo," disse.
"Non ti farà del male," replicò Jude.
"Lo so," rispose Clem, riportando lo sguardo sulla luce. La polvere dorata era più frenetica che mai. "Non è il dolore..."
"Che cosa allora?"
Clem scosse il capo.
"Io l'ho fatto," si intromise Monday. "Devi solo chiudere gli occhi e pensare all'Inghilterra."
Ciò fece sorridere Clem, che continuava a fissare la luce, quando Jude disse un'ultima frase che lo convinse:
"Lo amavi," gli ricordò.
Il sorriso morì sul volto e dopo un momento di silenzio Clem disse: "Lo amo ancora."
"E allora devi stare con lui."
Clem si girò a guardarla un'ultima volta e sorrise. Poi andò verso la luce.
Agli occhi di Jude non c'era nulla di particolare in quella scena. Semplicemente una porta e un uomo che l'aveva oltrepassata per dirigersi verso la luce del sole. Ma c'era anche un significato che prima non avrebbe colto e, d'improvviso, ripensò all'ammonimento di Oscar quando stavano per partire verso Yzordderrex. Sarebbe diventata un'altra persona, le aveva predetto, e avrebbe visto il mondo con occhi più penetranti. Ecco, quella ne era la prova. Forse la luce del sole era sempre stata magica, e le porte erano segni di un passaggio più importante di quello tra una stanza e l'altra. Ma non se n'era mai resa conto, almeno fino a quel momento.
Clem rimase in quel bagliore per circa trenta secondi con i palmi delle mani tese di fronte a sé. Poi tornò verso Judith, e lei capì che Taylor era entrato in lui. Se avesse dovuto indicare in quali parti del corpo di Clem si notasse quella presenza, non avrebbe saputo farlo. Non si scorgeva alcun cambiamento nella sua fisionomia; nessun particolare visibile, a meno che non si trattasse di segni estremamente sottili, l'inclinazione della testa, la fissità della bocca che non riusciva a distinguere. Ma era lì, indubbiamente. E c'era anche un'urgenza di cui Clem, un minuto prima, non aveva dato segno.
"Portate subito fuori Celestine," ordinò a Jude e a Monday. "Di sopra sta avvenendo qualcosa di terribile." Si allontanò dalla porta e si diresse verso le scale.
"Hai bisogno di aiuto?" gli chiese Judith.
"No. Rimani con lei, ha bisogno di te."
A quelle parole, Celestine pronunciò la prima frase da quando aveva lasciato la sua cella, e fu un'aspra correzione: "Io non ho bisogno di lei."
Clem ritornò sui propri passi e si avvicinò fino a pochi centimetri dalla donna.
"Sai che non mi piaci affatto, signora mia?" le gridò stizzosamente.
Judith scoppiò a ridere, riconoscendo al volo il tono irascibile di Taylor. Aveva dimenticato quanto le nature di Clem e di Taylor fossero state simili, prima che la malattia divorasse Tay.
"Siamo qui a causa tua, ricordalo," continuò Tay. "E saresti ancora laggiù a toglierti le caccole dall'ombelico, se Judith non ci avesse portati qui."
Celestine strinse gli occhi. "Riportatemi laggiù, allora," rispose di scatto.
"Se è così che la prendi..." ribatté Tay. Jude trattenne il fiato. Non lo avrebbe fatto, no? "... Adesso ti darò un grosso bacio e ti chiederò gentilmente di smettere di fare la vecchia bisbetica." La baciò sul naso. "Ora, andate," disse a Monday, e prima che Celestine riuscisse a replicare Tay stava già salendo le scale e sparendo dalla vista.
Attanagliato dal dolore, Sartori si girò e si diresse verso la sedia dove stava quando avevano incominciato il colloquio. La sua camminata denunciava tutta la stanchezza che provava; prese a calci quei frammenti di creature servili che lo adoravano, poi si fermò a osservare il corpo smembrato di Godolphin, lo mosse con un tocco, e la massa continuò a oscillare davanti a lui, ora nascondendolo, ora mostrandolo, mentre tornava al suo piccolo trono. Tutt'intorno vi erano i Peripeziari che vagavano come delle orde di parassiti, ma Gentle non aspettò che Sartori ordinasse loro di scagliarsi contro di lui. Sartori non era meno pericoloso per la disperazione cui aveva appena dato voce; anzi, era stata proprio quella a fugare in lui ogni speranza di pace. E per Gentle era lo stesso. La faccenda doveva chiudersi con la fine di Sartori, altrimenti il Diavolo che l'Autarca aveva deciso di impersonare avrebbe disfatto di nuovo la Grande Opera. Gentle trasse un respiro profondo. Non appena il fratello si fosse girato, avrebbe rilasciato lo pneuma e tutto sarebbe finito.
"Che cosa ti fa pensare che mi puoi uccidere, fratello?" gli domandò Sartori, senza voltarsi. "Dio è nel Primo Dominio e nostra Madre è quasi morta giù di sotto. Sei solo. Tutto ciò che hai è il fiato."
Il corpo di Godolphin continuava a dondolare tra di loro, ma Sartori non si girava ancora..
"E se mi distruggi, che cosa sarà di te? Ci hai pensato, a questo? Uccidimi e forse ucciderai te stesso."
Gentle sapeva che Sartori sarebbe stato capace di andare avanti a insinuargli dubbi del genere per tutta la notte. Era il complemento alla sua perduta abilità di sedurre: e quei dubbi cadevano in un terreno particolarmente fertile. Ma non l'avrebbero certo fermato. Preparato lo pneuma, si accodò all'uomo, rallentando solo di fronte al corpo oscillante di Godolphin; poi si fermò. Sartori continuava a rifiutarsi di farsi vedere in faccia e a Gentle non rimase altra scelta che perdere un po' del suo respiro assassino parlando.
"Guardami negli occhi, fratello," gli comandò.
Lesse l'intenzione di obbedirgli nel corpo di Sartori. Un inizio di movimento visibile nei piedi, nel busto e nel capo. Ma prima che Gentle potesse scorgere il viso, udì un rumore dietro di sé e si girò per osservare il terzo attore: il cadavere di Godolphin che si liberava dal cappio spezzato. Ebbe appena il tempo di dare uno sguardo agli Oviati che óra albergavano in quella carcassa, poi Godolphin fu su di lui. Non doveva essere difficile buttarsi di lato, ma le bestie avevano fatto molto di più che annidarsi in quel corpo. Si erano date da fare nei muscoli sfatti di Oscar realizzando quella resurrezione che Sartori aveva già sfidato Gentle a operare. Le braccia del cadavere afferrarono Gentle e, con tutta la massa resa più pesante dalla presenza dei parassiti, lo fecero piegare. Gentle rilasciò il fiato come aria inerte e, prima che potesse inspirare di nuovo, le sue braccia furono torte all'indietro fin quasi al punto di rottura.
"Non voltare mai la schiena a un uomo morto," lo ammonì Sartori, mostrando finalmente il volto.
Non c'era trionfo sul suo viso, sebbene avesse immobilizzato con una sola manovra il nemico. Rivolse lo sguardo all'esercito di Peripeziari che avevano costituito il cappio di Godolphin e, con il pollice della mano destra, descrisse un piccolo cerchio. Le bestie capirono al volo e il loro nugolo assunse la forma indicata.
"Sono più superstizioso di te, fratello," disse Sartori, raggiungendolo da dietro e buttando all'aria la sedia. Questa non rimase ferma, ma cominciò a rotolare per la stanza come se il movimento degli Oviati le si fosse trasmesso. "Non ti toccherò," disse ancora. Alzò i palmi delle mani. "Guarda, non posso essere incolpato," affermò retrocedendo verso le finestre oscurate dalle tende, "Morirai perché il mondo sta per crollare."
Mentre parlava, il movimento attorno a Gentle aumentò di intensità quanto più i Peripeziari si univano per realizzare l'ordine del loro padrone. Erano del tutto irrilevanti se presi singolarmente, ma come massa costituivano una forza notevole. Mentre il loro movimento vorticoso accelerava, si formò una corrente sufficientemente forte da sollevare in aria la sedia che Sartori aveva rovesciato. Le lampade alle pareti si staccarono trascinandosi dietro pezzi di muro; le maniglie furono strappate dalle porte e le altre sedie si sollevarono e si unirono alla macabra tarantella, rompendosi l'una con l'altra. Anche il tavolo cominciò a muoversi, nonostante fosse pesantissimo. Alla vista di quella tempesta, Gentle cercò di liberarsi dall'abbraccio freddo di Godolphin. Ci sarebbe riuscito se avesse avuto più tempo, ma il cerchio vorticante di frammenti d'ogni genere si chiuse troppo in fretta su di lui. Incapace di difendersi, l'unica cosa che gli rimaneva da fare era piegare la testa alla grandine di pezzi di legno, muro e vetro, trattenendo il fiato durante l'assalto. Solo una volta sollevò lo sguardo per fissare Sartori attraverso la tempesta. Il fratello era immobile contro il muro, il capo rivolto all'indietro per osservare l'esecuzione. Se c'era un sentimento sul suo viso, era certo quello di un uomo offeso da ciò che vedeva, un agnello obbligato ad assistere passivamente al sacrificio del suo compagno.
Pareva non udire la voce che proveniva dal corridoio, ma Gentle la captò. Era Clem che chiamava il nome del Maestro e bussava ripetutamente alla porta. Gentle non aveva la forza per rispondere. Le braccia del cadavere di Godolphin gli stringevano il capo, il torace e le gambe in una morsa che si serrava quanto più la pioggia di oggetti s'infittiva. Fortunatamente, Clem non stette ad aspettare una risposta. Cominciò a prendere l'uscio a spallate finché, a un certo momento, la serratura saltò e la porta si spalancò.
C'era più luce fuori che dentro, naturalmente, e com'era già successo prima, la luce precedette Clem nell'entrare. I Peripeziari si accanivano follemente per conquistarsene una striscia, e il loro gioco circolare si trasformò in folle confusione. Gentle sentì che la morsa si allentava a mano a mano che gli Oviati, che avevano animato il corpo di Godolphin, lasciavano la loro opera per unirsi alla mischia. Al frantumarsi delle energie il moto circolare cominciò a farsi meno intenso, ma non prima che un pezzo di tavolo colpisse una delle porte aperte, spaccandola. Clem vide arrivare l'oggetto volante e lo evitò un attimo prima che urtasse la porta: il suo grido di allarme scosse Sartori.
Gentle guardò il fratello. Non aveva più l'espressione innocente di poco prima, e stava studiando l'intruso con uno sguardo penetrante. Non lasciò comunque il posto vicino al muro dove si trovava. Proprio in quel momento stava piombando a terra una cascata di frammenti che avrebbe coperto completamente il pavimento, e non era proprio il caso di andarci di mezzo. Cercò invece di prelevare dal proprio occhio un uredo da scagliare addosso a Clem prima che questi lo attaccasse.
La massa di Godolphin incombeva ancora sopra Gentle, il quale, riprèsi i suoi sforzi per sollevarsi, e notando quanto stava per succedere, mise in allarme con un grido Clem. Questi udì il rkhiamo e vide Sartori che si cavava l'occhio. Sebbene non capisse il significato di quel gesto, fu veloce a proteggersi e si nascose dietro l'unico battente rimasto intatto mentre il colpo mortale si infrangeva su quello scudo improvvisato. Nello stesso momento, Gentle si alzò e si liberò del corpo inerte di Godolphin. Guardò nella direzione di Clem per accertarsi che fosse sopravvissuto al colpo e, vedendolo vivo, si lanciò all'inseguimento di Sartori. Aveva respirato di nuovo a fondo per formare un nuovo pneuma, e adesso avrebbe potuto rilasciarlo facilmente contro il proprio nemico. Ma le sue mani non si accontentavano dell'aria: volevano carne e ossa.
Indifferente alla massa di detriti che calpestava e che ancora gli cadeva addosso, Gentle corse dietro al fratello, che si rese conto del pericolo e si voltò verso di lui. Gentle ebbe il tempo di osservare il sorriso di ferale benvenuto su quel volto e poi si scagliò all'attacco. Lo slancio li portò entrambi a sbattere contro la finestra, il vetro dietro Sartori andò in frantumi e le guide delle tende cedettero.
Questa volta la luce che entrò nella stanza era abbagliante e cadde direttamente sul viso di Gentle. Questi rimase momentaneamente accecato, ma il suo corpo sapeva cosa fare. Spinse il fratello verso il davanzale e ve lo issò sopra. Sartori cercò un supporto cui attaccarsi e afferrò la tenda che, staccata, gli fu di scarso aiuto. Mentre si piegava all'indietro, la stoffa si squarciò; Sartori sì agitò per un attimo nel vuoto, poi perse la presa delle mani di Gentle e, con un urlo lancinante, precipitò.
Gentle preferì non seguire la caduta. Soltanto quando le grida cessarono, si ritrasse dalla finestra coprendosi il volto, mentre il disco del sole colorava l'interno delle sue palpebre di blu, verde e rosso. Quando riaprì gli occhi, vide soltanto devastazione. L'unica cosa rimasta intatta nella stanza era Clem che, comunque, non era nelle migliori condizioni. Si era alzato e osservava gli Oviati che avevano lottato così alacremente per una striscia di luce, e che ora si disfacevano nel suo eccesso. La loro sostanza si sfaldava come la pelle vuota di un rettile, i loro guizzi e i loro voli ridotti a una massa di marciume che arrancava penosamente lontano dalla finestra.
"Ho visto pezzi di stronzo più belli," commentò Clem.
Poi girò per la stanza strappando tutti i resti delle tende dal soffitto, sollevando un'intensa nuvola di polvere e facendo entrare da ogni parte la luce del sole, così che i Peripeziari non ebbero più ombra dove ripararsi.
"Taylor è qui," aggiunse subito dopo.
"Nel sole?" chiese Gentle.
"No, meglio," replicò Clem. "Nella mia testa. Pensiamo che tu abbia bisogno di angeli custodi, Maestro."
"È vero," rispose Gentle. "Grazie. A tutti e due."
Il Maestro tornò alla finestra e guardò in basso nella zona deserta dove Sartori era precipitato. Non si aspettava di vedere un corpo laggiù; e infatti il corpo non c'era. Sartori non sarebbe sopravvissuto tutti quegli anni come Autarca se non avesse avuto a disposizione almeno un centinaio di trucchi per salvarsi la pelle.
Mentre ridiscendevano, incontrarono Monday che saliva per controllare che cosa stava succedendo, dato che aveva sentito rompersi , una finestra.
"Pensavo fossi spacciato, Capo," disse.
"Quasi," fu la risposta di Gentle.
"Che cosa facciamo di Godolphin?" chiese Clem, riprendendo a scendere.
"Non dobbiamo fare nulla," rispose Gentle. "C'è una finestra aperta..."
"Non pensò che volerà da nessuna parte."
"No, ma gli uccelli possono raggiungerlo," continuò Gentle. "Meglio nutrire gli uccelli che i vermi."
"Mi pare che ci sia qualcosa di morboso in tutto questo," insinuò Clem.
"Come sta Celestine?" domandò Gentle al ragazzo.
"È in macchina, avvolta nella coperta e non parla molto. Non credo le piaccia il sole."
"Dopo aver passato duecento anni al buio, non mi sorprende. Quando arriveremo in Gamut Street, le troveremo una sistemazione più comoda. È una gran donna, signori miei. E poi, è mia madre."
"Ecco dove hai preso quel carattere di merda," osservò Clem.
"È sicura la casa dove stiamo andando?" domandò Monday.
"Se intendi dire se lì saremo in grado di prevenire un nuovo attacco di Sartori, be', penso proprio di sì."
Giunsero nell'atrio, invaso dalla luce del sole come mai lo era stato.
"Allora, quale pensi che sia la prossima mossa di quel bastardo?" chiese Clem.
"Di certo non tornerà qui," rispose Gentle. "Credo che vagherà un po' per la città. Ma prima o poi sentirà l'impulso di tornare all'origine."
"Cioè?"
Gentle aprì le braccia e disse: "Qui."
52
I
In quell'infuocato pomeriggio non c'era di sicuro nessuna strada a Londra infestata quanto Gamut Street. Né i luoghi nella City conosciuti per i loro fantasmi, né i posti anonimi noti soltanto a medium e bambini in cui si riunivano gli spettri, vantavano più anime ansiose di tornare a discutere nel luogo del loro decesso come quel ristagno a Clerkenwell. Mentre pochi occhi umani, anche quelli più avvezzi all'incredibile (e l'auto che svoltò in Gamut Street poco dopo le quattro conteneva parecchi di quegli occhi), potevano vedere i fantasmi come entità concrete, la loro presenza era abbastanza chiara. La segnalavano i punti freddi e fermi nella foschia luccicante che si sollevava dalla strada, e i cani randagi che si riunivano in folti gruppi agli angoli, attratti dal fischio acuto che alcune anime di defunti erano solite produrre. Perciò Gamut Street cuoceva in un calore proprio, nel suo potente stufato di spiriti.
Gentle aveva avvertito tutti che nella casa non avrebbero trovato comodità. Era senza mobili, acqua ed elettricità. Ma c'era il passato, disse, e sarebbe stato un conforto per tutti loro, dopo il periodo trascorso nella Torre del nemico.
"Ricordo questa casa," disse Jude quando uscì dall'auto.
"Dovremo entrambi stare molto attenti," la avvisò Gentle mentre saliva gli scalini. "Sartori ha lasciato all'interno uno dei suoi Oviati che mi ha quasi fatto impazzke. Voglio sbarazzarmi di lui prima che entriamo tutti."
"Vengo con te," disse Jude, seguendolo verso la porta.
"Non credo che sia saggio," la fermò lui. "Lascia che affronti Riposino per primo."
"È la creatura di Sartori?"
"Sì."
"Allora vorrei vederlo. Non ti preoccupare, non mi farà del male. Ho un po' del suo Maestro proprio qui, ricordi?" Si mise la mano sulla pancia. "Sono al sicuro."
Gentle non fece ulteriori obiezioni, ma si scostò per lasciare che Monday forzasse la porta, cosa che il ragazzo fece con l'efficienza di un ladro consumato. Prima ancora che il giovane avesse ridisceso gli scalini, Jude fu oltre la soglia, sfidando l'aria viziata e fredda.
"Aspetta," disse Gentle, seguendola nell'ingresso.
"Che aspetto ha questa creatura?" volle sapere.
"Una scimmia. O un bambino. Non lo so. Parla molto, su questo non ci sono dubbi."
"Riposino..."
"Esatto."
"Nome perfetto per un posto come questo."
Aveva raggiunto il fondo delle scale, e stava guardando in alto, verso la Stanza della Meditazione.
"Sta' attenta..." disse Gentle.
"Me l'hai già detto."
"Credo che tu non capisca quanto sia potente..."
"Sono nata là sopra, non è vero?" chiese lei, il tono gelido come l'aria. Non ottenne risposta, finché non si voltò ripetendo la domanda: "Non è vero?"
"Sì."
Annuendo a sua volta, Jude tornò a studiare le scale. "Hai detto che il passato stava qui ad aspettarci," gli ricordò.
"Sì."
"Anche il mio passato?"
"Non lo so. È probabile."
"Non sento niente. È come un dannato cimitero. Solo qualche ricordo vago."
"Verranno."
"Sembri molto sicuro."
"Jude, dobbiamo essere integri."
"Che cosa intendi?"
"Dobbiamo essere riconciliati con tutto ciò che siamo stati, prima di poter andare avanti."
"E se non volessi essere riconciliata? Se io volessi reinventarmi completamente, a partire da ora?"
"Non puoi farlo," rispose semplicemente lui. "Prima di tornare a casa dobbiamo essere integri."
"Se quella è casa," disse lei, accennando in direzione della Stanza della Meditazione, "te la puoi tenere."
"Non intendo la culla."
"Allora cosa?"
"Il luogo prima della culla. Il Cielo."
"Che si fotta. Non ho ancora ben classificato la Terra."
"Non è necessario che tu lo faccia."
"Lascia che sia io a decidere. Non ho nemmeno avuto una vita che possa definire mia, e tu sei già pronto a infilarmi nel grande progetto. Be', io non credo di volerci entrare. Voglio essere il mio progetto."
"Puoi esserlo. Come parte di..."
"Parte di niente. Voglio essere me stessa. Una legge a parte."
"Questi non sono discorsi tuoi. È Sartori che parla."
"E anche se fosse?"
"Sai che cosa ha fatto," replicò Gentle. "Le sue atrocità. Come puoi prendere lezioni da lui?"
"Intendi dire che dovrei prenderle da te? Da quando sei così dannatamente perfetto?" Lui non rispose, e Jude prese il suo silenzio come una nuova dimostrazione di rettitudine. "Oh, così non intendi abbassarti al mio livello fangoso, non è vero?"
"Ne discuteremo più tardi," disse lui.
"Discuterne?" rise lei. "Che cosa ci farai, Maestro, una lezione di etica? Voglio sapere che cosa ti fa sentire cosi straordinario."
"Sono il figlio di Celestine," disse semplicemente Gentle.
Lei lo fissò curiosa. "Sei cosa?"
"Il figlio di Celestine. È stata presa dal Quinto..."
"So dove è stata presa. E stato Dowd. Pensavo che mi avesse raccontato l'intera storia."
"Questa parte no?"
"Questa parte no."
"C'erano modi più gentili per dirtelo. Mi dispiace di non averne trovato uno."
Jude tacque.
Il suo sguardo tornò verso le scale. Quando parlò nuovamente, cosa che avvenne dopo un bel po', fu con un sussurro.
"Sei fortunato," disse lei. "Casa e Paradiso per te coincidono."
"Forse vale per tutti noi," mormorò Gentle.
"Ne dubito."
Seguì un lungo silenzio, costellato solo dai vani tentativi di fischiare di Monday, fuori sulla soglia. Alla fine Jude disse: "Ora capisco perché sei così ansioso di mettere tutto a posto. Stai... come si dice?... stai portando a compimento l'opera di tuo padre."
"Non l'avevo pensato esattamente in questi termini..."
"Ma è così."
"Immagino di sì. Spero solo di esserne all'altezza, ecco tutto. Un momento sento che tutto è possibile. E poco dopo..."
La studiò, mentre all'esterno Monday ritentava la melodia di poco prima.
"Dimmi cosa stai pensando," disse Gentle.
"Sto pensando che vorrei aver conservato le tue lettere d'amore," replicò Judith.
Ci fu un'altra pausa dolorosa, poi lei gli voltò le spalle e si diresse verso il retro della casa. Gentle esitò alla base delle scale, pensando che forse avrebbe dovuto andare con lei, nel caso che l'emissario di Sartori si nascondesse proprio lì, ma temeva di ferirla ulteriormente con il suo continuo controllo. Allora guardò dietro di sé, verso la porta aperta e il sole sul gradino. Se avesse avuto bisogno c'era lì un'uscita di sicurezza.
"Come sta andando?" urlò a Monday.
"Fa caldo," fu la risposta. "Clem è andato a comprare del cibo e della birra. Un sacco di birra. Dovremmo fare una festa, Capo. Ce la meritiamo proprio, non credi?"
"È vero. Celestine come sta?"
"Dorme. Posso già entrare?"
"Ancora un poco," replicò Gentle. "Ma continua a fischiare, d'accordo? In qualche punto si sente che stai imbroccando una melodia."
Monday rise, e quel suono, da un lato assolutamente naturale, dall'altro improbabile come un canto di balena, gli fece piacere. Se Riposino era ancora nella casa, pensò Gentle, la sua malvagità non poteva fare grandi danni in una giornata miracolosa come quella. Confortato, imboccò le scale, chiedendosi mentre saliva se forse non era stata la luce del giorno a spingere tutti i ricordi a nascondersi. Ma, prima d'aver raggiunto la metà della rampa, Gentle ebbe le prove che non era così. Il fantasma di Lucius Cobbitt, evocato nella sua mente, apparve accanto a lui, sdegnoso, piangente e avido di saggezza. Qualche istante dopo, Gentle udì il suono della sua stessa voce, che ripeteva al ragazzo il consiglio che gli aveva dato quell'ultima terribile notte.
"Non studiare al di fuori delle cose che conosci già. Non adorare nulla..."
Ma, prima di aver completato la seconda affermazione, della frase si appropriò una voce morbida che proveniva dall'alto.
"... tranne il tuo vero io. E non temere nulla..."
Il fantasma di Lucius Cobbit scomparve mentre Gentle continuò a salire, ma la voce divenne più alta.
"... tranne che la certezza di essere tu stesso il generatore del tuo nemico, e la sua unica speranza di salvezza."
E, con la voce, venne la consapevolezza che la saggezza trasmessa a Lucius non era completamente sua. Si era originata con il mystif. La porta della Stanza della Meditazione era aperta, e Pie era appollaiato sulla soglia, sorridendo dal passato.
"Quando hai inventato queste formule?" chiese il Maestro.
"Non le ho inventate, le ho imparate," replicò il mystif. "Da mia madre. È lei le ha imparate da sua madre, o da suo padre, chi lo sa? Ora le puoi tramandare tu."
"E io cosa sono?" chiese Gentle al mystif. "Tuo figlio o tua figlia?"
Pie parve quasi sconcertato. "Tu sei il mio Maestro," disse.
"È tutto? Ci sono ancora padroni e servi, qui? Di' quello che senti piuttosto."
"Oh..." Il mystif sorrise. "Se ti dicessi cosa sento, ci vorrebbe tutto il giorno."
Il guizzo di malizia nei suoi occhi era talmente accattivante, e il ricordo tanto reale, che Gentle desiderò poter attraversare la stanza e abbracciare lo spazio in cui era seduto il suo amico. Ma c'era un lavoro da fare per completare l'opera di suo Padre, come lo aveva definito Jude, ed era più importante che indulgere ai ricordi. Quando Riposino fosse stato cacciato dalla casa, allora Gentle sarebbe tornato lì per ascoltare una lezione più profonda: quella sulla Riconciliazione. Aveva bisogno di essere velocemente istruito, e lì i ricordi erano sicuramente ricchi di discorsi sull'argomento.
"Tornerò," disse alla creatura sulla porta. ' "Ti aspetterò," replicò Pie.
Gentle guardò indietro verso di essa, e il sole, penetrando dalla finestra alle spalle dell'apparizione, ne assorbì momentaneamente il profilo, nascondendogli la figura intera e lasciandogli solo un frammento. A Gentle si strinse lo stomaco, perché quell'immagine gliene evocò un'altra, con forza sorprendente: l'Annullamento in un torbido caos, e nell'aria sopra la sua testa i brandelli urlanti del suo amato, tornato nel Secondo con qualche parola di avvertimento.
"Disfatti," aveva detto, mentre lottava contro il richiamo dell'Annullamento, "siamo disfatti."
Gentle gli aveva dato una risposta tranquillizzante, strappata alle sue labbra dalla bufera? Non lo ricordava. Ma udiva ancora il mystif che lo ammoniva a ritrovare Sartori, dicendogli che l'altro sapeva qualcosa che lui, Gentle, ignorava. E poi era scomparso, ghermito dal Primo Dominio e lì ridotto al silenzio.
Con il cuore che batteva all'impazzata, Gentle cancellò quell'orrore dalla sua mente e guardò nuovamente sulla soglia. Adesso era vuota. Ma l'esortazione di Pie a trovare Sartori gli risuonava ancora nella testa. Si chiese perché fosse così importante ritrovarlo. Anche se il mystif aveva scoperto la verità sulle origini di Gentle nel Primo Dominio e non era riuscito a comunicargliela, doveva pur sapere che Sartori ignorava il segreto quanto suo fratello. E allora cosa sapeva Sartori di così importante che aveva indotto Pie a raggiungere Gentle per avvertirlo?
Un grido, da basso, gli fece dimenticare l'enigma. Jude lo stava chiamando. Gentle corse giù per le scale, seguendo la voce della donna per la casa e verso la cucina ampia e gelida. Jude era vicina alla finestra che era andata in rovina molti anni prima, consentendo al convolvolo del giardino sul retro di accedere all'interno della casa e poi di marcirvi a causa della mancanza di luce che le sue stesse dimensioni avevano aggravato. Il sole riusciva a far penetrare pochi raggi attraverso quel groviglio di foglie e rami, sufficienti però a illuminare la donna e il suo prigioniero, la cui testa era bloccata dal piede di Judith. Era Riposino, la bocca enorme schiacciata al suolo come una maschera tragica, gli occhi rivolti verso Jude.
"È questo?" chiese lei.
"È quello."
Mentre Gentle si avvicinava, Riposino emise una serie di sottili miagolii, che poi trasformò in parole.
"... non ho fatto niente! Chiedilo a lei, chiediglielo per favore, chiedile se ho fatto qualcosa? No, nulla. La stavo soltanto tenendo lontana dai guai."
"Sartori non è molto contento di te," disse Gentle.
"Be', non avevo speranze," protestò. "Non contro di te. Non contro un Riconciliatore."
"Allora, questo lo sai."
"Lo so ora. Dobbiamo essere integri," citò, riproducendo perfettamente il tono di Gentle. "Dobbiamo essere riconciliati con tutto ciò che siamo stati..."
"Stavi ascoltando."
"Non posso farci niente," disse la creatura, "Sono nato curioso. Però non ho capito," si affrettò ad aggiungere. "Non stavo spiando, lo giuro."
"Bugiardo," disse Jude. Poi, rivolta a Gentle: "Come lo uccidiamo?"
"Non è necessario farlo," disse lui. "Hai paura, Riposino?"
"Tu cosa credi?"
"Se ti permettessi di vivere, mi giureresti obbedienza?"
"Dove devo firmare? Da' qua!"
"Tu lo vorresti risparmiare?"
"Sì."
"Perché?" chiese Judith, aumentando la pressione del tallone, "Guardalo."
"Non farlo," implorava Riposino.
"Giura," disse Gentle, accovacciandosi accanto a lui.
"Lo giuro! Lo giuro!"
Gentle alzò lo sguardo verso Jude. "Solleva il piede," disse.
"Ti fidi di lui?"
"Non voglio morte, qui," disse Gentle. "Neanche questa. Lascialo andare Jude." Lei non si mosse. "Ho detto di lasciarlo andare."
Anche se decisamente riluttante, Jude sollevò il piede di poco e Riposino strisciò in libertà, afferrando immediatamente la mano di Gentle.
"Sono tuo, Liberatore," disse, sfiorando con la fronte appiccicaticcia la mano di Gentle. "La mia testa è nelle tue mani. Per Hyo, per Heratea, per Hapexamendios, io ti affido il mio cuore."
"Accettato," disse Gentle alzandosi.
"Cosa devo fare ora, Liberatore?"
"In cima alle scale c'è una stanza. Aspettami lì."
"Per l'eternità."
"Basteranno pochi minuti."
La creatura indietreggiò verso la porta, inchinandosi profondamente, poi sparì.
"Come puoi fidarti di una cosa come quella?" disse Jude.
"Non mi fido. Non ancora."
"Ma intendi provarci."
"Jude, se non sai perdonare, sei anche tu condannata."
"Riusciresti a perdonare Sartori, non è vero?" chiese lei.
"Lui è me, è mio fratello ed è mio figlio," replicò Gentle. "Come potrei non farlo?"
II
Avendo reso sicura la casa, la compagnia vi entrò. Monday, l'eterno robivecchi, girò per le case e le strade del vicinato alla ricerca di qualsiasi cosa potesse trovare per offrirsi qualche comodità. Tornò tre volte con un bottino, e la terza volta portò Clem con sé. Tornarono mezz'ora più tardi con due materassi e manciate di lenzuola, tutte troppo pulite per essere state trovate.
"Ho scoperto la mia vera vocazione," disse Clem, con la malizia di Tay sul viso. "Rubare è molto più divertente che lavorare in banca."
In quel momento Monday chiese il permesso di prendere in prestito l'auto di Jude e tornare al South Bank, per raccogliere le cose che aveva lasciato indietro nella fretta di seguire Gentle. Lei acconsentì, ma gli chiese di tornare prima possibile. Anche se per le strade era ancora chiaro, al calar della notte avrebbero avuto bisogno del maggior numero possibile di braccia e menti forti per proteggere la casa. Clem aveva sistemato Celestine in quella che era stata la sala da pranzo, adagiando il materasso più grande sul pavimento, e rimase con lei fino a che non si addormentò. Quando uscì, la presenza dello spirito di Tay l'aveva addolcito, e l'uomo che raggiunse Jude sulla soglia era sereno.
"Dorme?" gli chiese Jude.
"Non so se dorme o se è in coma. Dov'è Gentle?"
"Di sopra a complottare."
"Avete litigato."
"Non è una novità. Tutto il resto cambia, ma quello rimane uguale."
Clem aprì una delle bottiglie di birra seduto sul gradino e beve con gusto. "Sai, ogni tanto mi ritrovo a chiedermi se non è tutta una specie di allucinazione. Probabilmente tu capisci più cose di me - hai visto i Domini, sai che è tutto vero - ma quando sono andato con Monday a prendere i materassi, c'erano persone a pochi isolati da qui che camminavano al sole come se fosse una giornata qualsiasi, e io pensavo che qui c'erano una donna che è rimasta sepolta viva per duecento anni, e suo figlio, il cui padre è un Dio di cui non ho mai sentito parlare..."
"Allora te lo ha detto."
"Oh sì. E, ripensandoci, volevo andarmene a casa, chiudere la porta e fingere che non stesse succedendo niente."
"Che cosa ti ha fermato?"
"Più che altro Monday. Lui fa tutto con grande facilità. E sapere che Tay è dentro di me. Anche se questo mi sembra del tutto naturale, come se ci fosse sempre stato."
"Forse c'era," disse Judith. "C'è altra birra?"
"Sì."
Le passò una bottiglia, e Judith la batté contro lo scalino come aveva fatto lui. Il tappo saltò; la birra fece schiuma.
"All'ora cosa ti ha fatto desiderare di fuggire?" continuò lei, dopo aver placato la sete.
"Non lo so," rispose Clem. "Immagino sia stata la paura di ciò che ci aspetta. Ma è stupido, no? Siamo all'inizio di qualcosa di sublime, proprio come aveva promesso Tay. La luce sta per giungere nel mondo da un luogo di cui non ci sognavamo neanche l'esistenza. E la nascita del Figlio Invitto, non è vero?"
"Oh, i figli staranno bene," disse Jude. "Come al solito."
"Ma tu non sei altrettanto sicura riguardo alle figlie, vero?"
"No, non lo sono," rispose lei. "Clem, Hapexamendios ha ucciso le Dee in tutta l'Imagica, o almeno ci ha provato. Ora scopro che è il padre di Gentle. Questo non mi fa sentire tanto tranquilla."
"Posso capirlo."
"Parte di me pensa..." Tacque, interrompendo la frase.
"Cosa?" chiese lui. "Dimmi."
"Parte di me pensa che siamo pazzi a fidarci di entrambi. Di Hapexamendios o del Suo Riconciliatore. Se era un Dio così amorevole, perché ha provocato tanto dolore? E non mi dire che le sue vie sono imperscrutabili, perché è solo una grandissima stronzata e lo sappiamo tutti e due."
"Ne hai parlato con Gentle?"
"Ci ho provato, ma lui ha una cosa sola in mente..."
"Due," corresse Clem. "Una è la Riconciliazione. Pie'oh'pah è l'altra."
"Oh sì, il glorioso Pie'oh'pah."
"Sapevi che lo aveva sposato?"
"Sì, me lo ha detto."
"Dev'essere stata una creatura davvero straordinaria."
"Ho paura di essere un po' prevenuta," replicò lei seccamente, "Ha cercato di uccidermi."
"Gentle ha detto che non era quella la natura di Pie."
"No?"
"Mi ha detto di avergli ordinato di vivere la sua vita come assassino e puttana. Ha detto che è tutta colpa sua. Si incolpa di tutto."
"Se ne incolpa o se ne assume soltanto la responsabilità?" chiese lei. "C'è differenza."
"Non lo so," tagliò corto Clem che non desiderava farsi coinvolgere in disquisizioni troppo sottili, "Certo che senza Pie lui si sente perduto."
Jude tacque, ma avrebbe voluto dire che anche lei si sentiva perduta, che anche lei si struggeva. Non volle però ammetterlo, neppure con Clem.
"Mi ha detto che lo spirito di Pie è ancora vivo, come quello di Tay," stava continuando Clem, "e che quando tutto questo sarà finito..."
"Ne dice di cose," lo interruppe Jude, poco disposta a sentire ripetere le dottrine di Gentle.
"E tu non gli credi?"
"Che ne so?" disse lei irrigidita. "Non appartengo a questo Vangelo. Non sono la sua amante e non sarò il suo discepolo."
Udendo un suono alle loro spalle, si girarono e videro Gentle in piedi nell'ingresso: la luce riverberava dalla soglia come quella di un riflettore. Aveva il viso sudato, e la camicia gli aderiva al torace. Clem si alzò con celerità colpevole, urtando coi piedi la bottiglia che rotolò per due gradini rovesciando birra spumeggiante prima che Jude la raccogliesse.
"Fa caldo di sopra," disse Gentle.
"E non sembra che il tempo voglia rinfrescare," osservò Clem, "Posso dirti una parola?"
Jude capì che Gentle voleva parlargli in modo che lei non sentisse, ma Clem o era troppo ingenuo per rendersene conto, cosa di cui dubitava, o non voleva assecondarlo nel suo gioco. Rimase sullo scalino, obbligando Gentle a venire sulla porta.
"Quando torna Monday," disse, "vorrei che tu andassi alla Proprietà e che riportassi le pietre al Rifugio. Eseguirò la Riconciliazione al piano di sopra, dove sarò aiutato dai miei ricordi."
"Perché mandi Clem?" chiese Jude, senza alzarsi né girarsi. "Io conosco la strada, lui no. Io so che aspetto hanno le pietre, lui no."
"Penso che sia meglio che tu rimanga qui," rispose Gentle.
Jude si girò. "Per fare cosa?" domandò. "Non sono utile a nessuno. A meno che tu non mi voglia semplicemente tenere d'occhio."
"Niente affatto."
"Allora lasciami andare," disse lei. "Porterò Monday per aiutarmi. Clem e Tay possono rimanere qui. Sono i tuoi angeli, non è vero?"
"Se è così che preferisci," disse Gentle, "mi sta bene."
"Tornerò, non ti preoccupare," concluse lei, sarcastica, sollevando la bottiglia di birra. "Fosse anche solo per brindare al miracolo."
III
Poco dopo questa conversazione, mentre l'azzurra marea del crepuscolo si levava sulle strade sospingendo l'ultima luce sopra il colmo dei tetti, Gentle interruppe la sua conversazione con Pie e andò a sedersi accanto a Celestine. La stanza della donna era più intima di quella che egli aveva appena lasciato, là, dove il ricordo di Pie veniva evocato tanto agevolmente da rendere talora difficile credere che il mystif non fosse lì in carne e ossa. Clem aveva acceso delle candele accanto al materasso sul quale Celestine stava dormendo, e la loro luce mostrò a Gentle una donna sprofondata in un sonno senza sogni. Non era smunta, ma i suoi lineamenti erano così affilati da far pensare che la sua carne si stesse trasformando in osso. Gentle la studiò per un momento chiedendosi se un giorno anche il proprio viso avrebbe assunto una simile severità, poi tornò ai piedi del letto e lì si accovacciò, ascoltando il ritmo lento del respiro di lei.
La sua mente continuava a girare attorno a quello che aveva appreso, o richiamato alla memoria, nella stanza di sopra. Come gran parte della magia che aveva conosciuto, la Riconciliazione non richiedeva grandi cerimoniali. Mentre la maggior parte delle religioni dominanti del Quinto sguazzavano in rituali amministrati da ciarlatani il cui scopo era quello di accecare le masse, certe messinscene erano superflue quando i ministri erano depositari della verità, e con l'aiuto della memoria anche lui sarebbe potuto diventare uno di loro.
Aveva scoperto che il principio della Riconciliazione non era molto difficile da comprendere. Pareva che ogni duecento anni l'In Ovo producesse una specie di fiore: un loto a cinque petali che fluttuava per un breve periodo in quelle acque mortali, immune al loro veleno o ai loro abitanti. Quel santuario veniva chiamato con un'infinità di nomi, ma il più semplice e più usato era Ana. In esso i Maestri si riunivano, portando con sé gli Analogia, le rappresentazioni esclusive dei Domini che ciascuno di loro rappresentava. Una volta che i pezzi fossero stati messi insieme il processo avrebbe seguito il suo corso. Gli Analogia si sarebbero fusi e, potenziati dall'Ana, sarebbero germogliati, ricacciando indietro l'In Ovo e aprendo la strada tra i Domini Riconciliati e il Quinto.
"Le cose tendono al bene," aveva detto il mystif, parlando da un tempo migliore. "L'istinto naturale di ogni cosa spezzata è di tornare nuovamente integra. E fino a quando non verrà riconciliata, rimagica sarà spezzata."
"Allora perché ci sono stati tanti fallimenti?" aveva chiesto Gentle.
"Non ce ne sono stati poi tanti," aveva replicato Pie. "E sono sempre stati causati da forze esterne. Cristo venne abbattuto dai politici. Savonarola è stato distrutto dal Vaticano. Sempre gente estranea che ha vanificato le migliori intenzioni dei Maestri. Noi non abbiamo nemici di questo tipo."
Con il senno di poi, erano parole ironiche. Gentle non poteva permettersi un simile ottimismo. Non con Sartori ancora vivo e l'immagine agghiacciante dell'ultima, convulsa apparizione di Pie nell'Annullamento sempre viva nella sua mente.
Non aveva senso starci a rimuginare sopra. Gentle allontanò come poté quelle immagini per fissare invece lo sguardo su Celestine. Era. difficile pensare a lei come a sua madre. Forse, tra gli innumerevoli ricordi che aveva messo insieme in quella casa, c'era qualche vaga reminiscenza di quando era un bambino tra le sue braccia, e applicava la sua boccuccia sdentata a quel seno per nutrirsi. Ma se quel ricordo c'era, gli sfuggiva. Forse c'erano semplicemente troppi anni, e vite, e donne, tra il presente e il periodo in cui veniva cullato. Riusciva a trovare in sé la gratitudine per la vita che quella donna gli aveva dato, ma nient'altro.
Dopo un po' di tempo la veglia cominciò a deprimerlo. Celestine era come un cadavere che giaceva inerte, e lui uno che la vegliava, con grande solerzia ma senza amore. Si alzò per andarsene, ma prima di uscire dalla stanza si fermò accanto alla donna e si chinò per toccarle la guancia. Non poggiava la propria carne su quella di lei da ventitré o ventiquattro decenni, e forse in seguito non lo avrebbe mai più fatto. Celestine non era gelida come si aspettava, ma calda, e Gentle tenne la mano su di lei più a lungo di quanto intendesse fare. Nella profondità del suo sonno lei sentì il suo tocco, e sembrò riscuotersi, come se sognasse di lui. La sua austerità si addolcì, e le sue labbra livide mormorarono: "Figlio?"
Gentle non sapeva se rispondere o no, ma, mentre esitava, lei parlò ancora, ripetendo la stessa domanda. Questa volta Gentle disse: "Sì, Madre?"
"Ti ricorderai quello che ti ho detto?"
E ora? si chiese Gentle. "Non... sono sicuro," rispose. "Tenterò."
"Te lo devo ripetere? Voglio che te ne ricordi, figliolo."
"Sì, Madre," disse lui. "È meglio. Dimmelo ancora."
Lei sorrise di un sorriso impercettibile, e cominciò a ripetere una storia che doveva aver raccontato molte altre volte.
"C'era una volta una donna chiamata Nisi Nirvana..."
Non appena iniziò, il sogno che stava facendo ebbe il sopravvento su di lei, e Celestine tornò a scivolare in un luogo più profondo, mentre la sua voce perdeva intensità.
"Non ti fermare, Madre," la incitò Gentle. "Voglio sentire. C'era una volta una donna..."
"... sì..."
"... chiamata Nisi Nirvana."
"... sì. E andò in una città piena di iniquità, dove nessun'anima era integra e nessuna carne intatta. E lì qualcosa le fece molto male..."
La sua voce stava riacquistando forza, ma il sorriso, anche quel minuscolo accenno, era scomparso.
"Che male, Madre?"
"Non c'è bisogno che tu lo sappia, figlio. Un giorno lo saprai, e quel giorno desidererai poterlo dimenticare. Sappi solo che è un male che soltanto gli uomini possono fare alle donne."
"E chi le ha fatto questo male?" chiese Gentle.
"Te l'ho detto, figlio: un uomo."
"Ma quale uomo?"
"Il suo nome non ha importanza. Quello che conta è che lei gli sfuggì e tornò nella sua città, sapendo di dover trasformare in bene il male che le era stato fatto. E sai quale fu quel bene?"
"No, Madre."
"Un bambino. Un neonato perfetto. E lei lo amò così tanto che il bambino diventò subito grande. Ma la donna sapeva che l'avrebbe lasciata, così gli disse: prima che tu te ne vada ho una storia da raccontarti. E sai qual era la storia? Voglio che te ne ricordi, figlio."
"Dimmelo."
"C'era una volta una donna chiamata Nisi Nirvana che andò in una città piena di iniquità..."
"È la stessa storia, Madre."
"... dove nessuna anima era integra..."
"Non hai finito la storia. Hai solo ricominciato."
"... e nessuna carne intatta. E lì qualcosa..."
"Smetti, Madre," disse Gentle. "Fermati."
"... le fece molto male..."
Stancatosi di quel circolo vizioso, Gentle tolse la mano dalla guancia della madre. Lei però non mise fine alla sua recita, almeno non subito. La storia continuò esattamente come prima: la fuga dalla città; il bene dopo il male; il bambino, il neonato perfetto. Ma, senza la mano sulla guancia, Celestine tornò a riaffondare in un sonno privo di pensieri, la voce sempre più indistinta. Gentle si alzò e si ritrasse verso la porta, mentre la storia bisbigliata tornava a completare il ciclo.
"... così gli disse: prima che tu te ne vada ho una storia da raccontarti."
Gentle allungò la mano dietro a sé e aprì la porta, gli occhi fissi su sua madre mentre le parole fluivano indistinte.
"E sai qual era la storia?" diceva. "Voglio... che... te ne... ricordi... figlio."
Gentle continuò a guardarla mentre usciva nel corridoio. Gli ultimi suoni che udì non avrebbero avuto senso per nessuno tranne che per lui, ma ora aveva già sentito abbastanza per sapere che Celestine stava ricominciando, mentre piombava in un sonno senza sogni.
"C'era una volta una donna..."
A quel punto Gentle chiuse la porta. Per un qualche inspiegabile motivo stava tremando, e dovette rimanere sulla soglia per diversi secondi prima di riuscire a controllare il tremore. Quando si girò vide Clem che, in fondo alle scale, rovistava in un mucchio di candele.
"Dorme ancora?" chiese, mentre Gentle si avvicinava.
"Sì. Clem, ha mai parlato con te?"
"Molto poco. Perché?"
"L'ho appena sentita raccontare una storia nel sonno. Qualcosa su una donna di nome Nisi Nirvana. Sai cosa significa?"
"Nisi Nirvana. Forse paradiso. È il nome di qualcuno?"
"Si direbbe di sì. E per qualche motivo è molto importante per lei. È il nome che ha detto a Judith per indurmi ad andare da lei."
"E qual è la storia?"
"E una storia molto strana," disse Gentle.
"Forse ti piaceva di più quando eri bambino."
"Forse..."
"Se la sento parlare ancora, vuoi che ti chiami?"
"Meglio di no," disse Gentle. "La so a memoria." Prese a salire le scale.
"Avrai bisogno di candele lassù," disse Clem, "e di fiammiferi con cui accenderle."
"Sì, è vero," rispose Gentle, girandosi.
Clem gli passò una mezza dozzina di candele, grosse, mozze e bianche. Gentle ne restituì una.
"Il numero magico è cinque," disse.
"Ho lasciato del cibo in cima alle scale," gli lanciò dietro Clem quando Gentle tornò a salire. "Non è esattamente haute cuisine, ma si lascia mangiare. E se non ne approfitti ora, sparirà appena torna il ragazzo."
Gentle gridò i suoi ringraziamenti verso il piano inferiore, raccolse il pane, le fragole e la bottiglia di birra che lo aspettavano in cima alle scale, poi tornò nella Stanza della Meditazione, chiudendo la porta dietro di sé. Forse era ancora preoccupato da ciò che aveva udito dalle labbra della madre, e forse per quello i ricordi di Pie lo risparmiarono. La stanza era vuota; una cella del presente. Solo quando Gentle ebbe sistemato le candele sulla cappa del caminetto e ne accese una, udì il mystif che parlava dolcemente dietro di lui.
"Ora ti ho rattristato," disse.
Gentle si girò e vide Pie alla finestra, dove oziava così spesso, con un'espressione di profonda preoccupazione sul viso.
"Non avrei dovuto chiedere," continuò. "È stata solo pura curiosità. Ho sentito Abelove che interrogava Lucius uno o due giorni fa, e la cosa mi ha dato da pensare."
"Che cosa ha detto Lucius?"
"Diceva che ricordava di essere stato allattato. Era la prima cosa che riuscisse a ricordare. Il capezzolo sulla bocca."
Solo allora Gentle comprese l'argomento della discussione. Ancora una volta la sua memoria aveva trovato un frammento di conversazione tra lui e il mystif che aveva a che fare con le sue preoccupazioni attuali. Avevano parlato di ricordi d'infanzia in quella stessa stanza, e il Maestro era caduto preda della stessa angoscia che provava ora; e per lo stesso motivo.
"Mai ricordare una storia," stava dicendo Pie. "In particolare una che non ti piace."
"Non è che non mi piacesse," replicò il Maestro. "Diciamo che non mi spaventava come avrebbe potuto fare una storia di spettri. Era peggio..."
"Non dobbiamo parlarne per forza," disse Pie, e per un istante Gentle pensò che la conversazione stesse per esaurirsi. Non era del tutto sicuro che gliene sarebbe importato. Ma una delle regole non scritte di quella casa sembrava essere che non si poteva sfuggire a nessun ricordo, per quanto sconvolgente fosse.
"No, voglio spiegare, se ci riesco," disse il Maestro. "Anche se a volte è difficile spiegare che cosa fa paura a un bambino."
"A meno che tu non sia in grado di ascoltare con il cuore di un bambino," disse Pie.
"Questo è ancora più difficile."
"Possiamo provare, no? Raccontami la storia."
"Be'... cominciava sempre allo stesso modo. Mia madre diceva: Voglio che te ne ricordi, figliolo, e non appena lo diceva sapevo che cosa sarebbe seguito. C'era una volta una donna chiamata Nisi Nirvana che andò in una città piena di iniquità..."
Ora Gentle udì nuovamente la storia, questa volta dalle sue stesse labbra, raccontata al mystif. La donna, la città, il crimine, il bambino, e poi, in un crescendo inesorabile, la storia che ricominciava con la donna, la città e il crimine.
"Lo stupro non è un bell'argomento in una favola per bambini," osservò Pie.
"Lei non ha mai usato quella parola."
"Ma il crimine è questo, non credi?"
"Sì," rispose lui piano, come se ammetterlo lo mettesse a disagio. Questo era il segreto di sua madre; il dolore di sua madre. Sì, naturalmente Nisi Nirvana era Celestine, e la città dei terrori era il Primo Dominio. Aveva raccontato al figlio la sua storia, concentrata in una piccola fiaba truce. Ma la cosa più bizzarra era che aveva coinvolto l'ascoltatore nella favola, e anche il racconto della storia stessa creava un cerchio impossibile da rompere, perché tutti gli elementi che la costituivano erano come intrappolati al suo interno. Era questo il senso di costrizione che lo aveva tanto fatto soffrire da bambino? Pie aveva però un'altra teoria, e gliela stava comunicando.
"Non c'è da stupirsi che tu avessi tanta paura," disse il mystif. "Non sapevi quale fosse il crimine, ma sapevi che era terribile. Sono sicuro che nel raccontartelo Celestine non volesse farti del male. Era la tua immaginazione che viaggiava a rotta di collo."
Gentle non rispose, o piuttosto non poté farlo. Per la prima volta durante quei colloqui con Pie, egli sapeva più di quanto la storia dicesse, e ciò incrinava lo specchio attraverso cui aveva visto il passato. Un gran senso di sconfitta si univa all'angoscia che aveva provato entrando in quella stanza. Era come se la storia di Nisi Nirvana marcasse la divisione tra l'io che, ignaro della propria natura divina, aveva occupato quelle stanze duecento anni prima e l'uomo che egli era adesso, consapevole che la storia di Nisi Nirvana era la storia di sua madre, e che il crimine di cui lei gli aveva parlato era l'atto che gli aveva dato la vita. Ora non poteva indugiare oltre nel passato. Aveva appreso ciò che gli serviva sapere per compiere la Riconciliazione, e non poteva giustificare ulteriori indugi. Era ora di lasciare il conforto dei ricordi, e Pie con essi.
Prese la bottiglia di birra e la stappò. Probabilmente non era saggio bere alcool in quel momento, ma Gentle voleva brindare al passato prima che scomparisse completamente alla sua vista. Pensò che doveva esserci stato un tempo in cui lui e Pie avevano bevuto augurandosi prosperità. Poteva evocare un tale momento ora, e unire il suo attuale augurio a quello passato per l'ultima volta? Si portò la bottiglia alle labbra e, mentre beveva, udì Pie ridere dall'altra parte della stanza. Guardò in direzione del mystif, e vide il suo amante che, già sul punto di svanire, stava brindando al futuro non con un bicchiere ma con una caraffa. Alzò la bottiglia per toccare la caraffa, ma il mystif stava scomparendo troppo velocemente. La visione scomparve. Era ora di cominciare.
Di sotto, Monday era tornato e parlava in preda all'eccitazione. Posata la bottiglia sulla cappa del camino, Gentle uscì sul pianerottolo per scoprire a cosa fosse dovuto tutto quel clamore. Il ragazzo era sulla porta e stava facendo a Clem e Jude una descrizione della città come gli era apparsa in quella sua uscita. Disse di non aver mai visto un sabato sera più strano. Le strade erano praticamente vuote. L'unica cosa che si muoveva erano le luci dei semafori.
"Almeno viaggeremo tranquilli," disse Jude.
"Andiamo da qualche parte?"
Judith glielo disse e lui ne gioì.
"Mi piace la campagna," disse. "Possiamo fare quel cavolo che ci pare."
"L'importante è tornare indietro vivi," disse Judith. "Lui fa conto su di noi."
"Non c'è problema," replicò allegramente Monday. Poi si rivolse a Clem: "Tieni d'occhio il Capo, eh? Se le cose si mettono male, possiamo sempre chiamare l'Irlandese e gli altri."
"Hai detto loro dove siamo?" chiese Clem.
"Non ti preoccupare, non verranno qui alla ricerca di un letto," disse Monday. "Ma, per come la vedo io, più amici abbiamo meglio è." Si voltò verso Jude. "Quando sei pronta, lo sono anch'io," concluse, e uscì.
"Non ci vorranno più di due o tre ore," disse Jude a Clem. "Abbi cura di te. E di lui."
Mentre parlava, alzò lo sguardo verso le scale, ma la luce delle candele era troppo debole per arrivare a Gentle, e lei non riuscì a vederlo. Solo quando si fu allontanata e il motore della macchina già rombava giù in strada, Gentle rese manifesta la sua presenza.
"Monday è tornato,'" gli disse Clem.
"L'ho sentito."
"Ti ha disturbato? Mi dispiace."
"No, no. Avevo finito in ogni caso."
"La notte è così calda," disse Clem guardando verso il cielo.
"Perché non dormi un po'? Posso fare la guardia io."
"Dov'è il tuo dannato animaletto?"
"Si chiama Riposino, Clem, ed è all'ultimo piano, all'erta."
"Non mi fido di lui, Gentle."
"Non ci farà del male. Va' a sdraiarti."
"Hai finito con Pie?"
"Penso di avere appreso quello che potevo. Ora devo passare in rassegna il resto del Sinodo."
"Come farai?"
"Lascerò il mio corpo di sopra, e mi metterò in viaggio."
"Sembra pericoloso."
"L'ho già fatto. Ma mentre sono fuori la mia carne e il mio sangue saranno vulnerabili."
"Svegliami non appena stai per andare. Ti terrò d'occhio come un falco."
"Prima dormi un'oretta."
Clem raccolse una delle candele e andò a cercare un luogo in cui sdraiarsi, mentre Gentle guadagnava la sua postazione sulla porta principale. Sedette sul gradino con la testa poggiata allo stipite della porta e si godette quel poco di brezza che la notte era in grado di concedere. Nella strada non c'erano lampioni funzionanti. Erano la luce della luna, e quella delle stelle accese intorno a essa, a sottolineare i dettagli nella casa di fronte, e a cogliere il pallido lato inferiore delle foglie quando il vento le sollevava. Cullato, si assopì, perdendosi le stelle cadenti.
"Oh, che bello," disse le ragazza. Non poteva avere più di sedici anni, e quando rideva (e il suo ragazzo l'aveva fatta ridere molto quella sera) sembrava ancora più giovane. Ma adesso non stava ridendo. Era in piedi nell'oscurità e guardava la pioggia di meteore, mentre Sartori continuava a contemplare lei con ammirazione.
L'aveva trovata tre ore prima mentre gironzolava per la Fiera di Mezza Estate di Hampstead Heath, ed era entrato con facilità nelle sue grazie. La Fiera stava facendo pochi affari, vista la poca gente che c'era in giro, perciò quando aveva chiuso lui l'aveva convinta a seguirlo in città. Aveva detto che avrebbero comperato del vino e avrebbero passeggiato, trovato un luogo per sedersi, parlare e guardare le stelle. Era passato molto tempo da quando si era dedicato per l'ultima volta alla seduzione (Judith era stata una sfida completamente diversa) ma i trucchi del mestiere tornarono con prontezza, e la soddisfazione nel veder crollare la resistenza della ragazza, più il vino di cui era impregnato, lo aiutarono molto ad alleviare il dolore delle recenti sconfitte.
La ragazza, che si chiamava Monica, era adorabile e arrendevole. All'inizio incrociò il suo sguardo solo timidamente, ma faceva parte del gioco che lui accettò di condividere per un poco, come diversivo dall'imminente tragedia. Per quanto timida, quando lui suggerì di fare una passeggiata lungo i terreni pieni di edifici in demolizione dietro Shiverick Square, Monica non rifiutò, anche se mise in chiaro che voleva essere trattata con tutte le attenzioni. Cosa che lui fece. Camminarono insieme nell'oscurità finché trovarono un luogo in cui la sterpaglia si diradava, formando una specie di radura. Il cielo sopra di loro era limpido, e lei godeva di una stupenda, languida vista della pioggia di meteore.
"Mi fa sempre un po' paura," gli disse con il suo sgraziato accento cockney. "Guardare le stelle intendo."
"Perché?"
"Be'... fa sentire così piccoli..."
Prima Sartori le aveva chiesto di parlargli della sua vita, e lei aveva offerto di buon grado qualche spunto biografico, parlandogli prima di un ragazzo chiamato Trevor, che diceva di amarla ma che poi si era messo con la sua migliore amica; quindi di sua madre, che collezionava rane in ceramica, e di quanto le sarebbe piaciuto vivere in Spagna, perché lì tutti erano molto più felici. Ma ora, senza esservi stata indotta, gli disse che non le importava della Spagna, né di Trevor, né delle rane di ceramica. Era felice, disse; e la vista delle stelle, che di solito la spaventava, stasera le faceva desiderare di volare. Allora lui le disse che potevano volare davvero, insieme: bastava che lei dicesse una sola parola.
A quel punto Monica allontanò lo sguardo dal cielo con un sospiro rassegnato. "So che cosa vuoi," disse. "Siete tutti uguali. Volare. È così che lo chiami tu?"
Sartori le disse che lo aveva completamente frainteso. Non l'aveva portata lì per amoreggiare. Era una cosa indegna di entrambi.
"Per cosa, allora?" chiese lei.
Sartori le rispose con la mano, e fu tro'ppo veloce per essere contraddetto. Il secondo più importante atto fisiologico, dopo quello cui aveva pensato lei. Il dibattersi di Monica cessò quasi subito dopo il suo sorriso e in meno di un minuto la ragazza giacque a terra, morta. Sopra a loro le stelle continuavano a cadere con un'abbondanza che a Sartori ricordava una notte di duecento anni prima. Una pioggia fuori stagione di corpi celesti, come presagio degli eventi della notte seguente.
Sartori smembrò e sventrò la ragazza con la massima cura, e sparse i pezzi tutt'intorno alla radura con una certa cerimoniosità. Non c'era fretta. Quel lavoro andava fatto proprio nei momenti un po' tetri che precedono l'alba, cui mancavano ancora un paio d'ore. Quando essa giunse, e il lavoro fu compiuto, il suo risultato soddisfece Sartori e gli diede buone speranze. Il corpo di Godolphin era già freddo quando lo aveva usato, e il suo proprietario non poteva certo essere considerato un innocente. Perciò gli Oviati attratti da un'esca tanto poco appetitosa, erano stati dei più primitivi. Monica, al contrario, era calda, e non aveva vissuto abbastanza per essere insozzata. La sua morte avrebbe aperto nell'In Ovo una spaccatura più profonda di quanto avesse fatto quella di Godolphin, e attraverso quella Sartori sperava di attirare una specie particolare di Oviati, particolarmente adatta al lavoro dell'indomani. Un tipo infido, molto più famelico, che lo avrebbe aiutato a provare l'indomani di che cos'era capace un bambino nato per distruggere.
53
Dopo tutto quello che Monday aveva detto sullo stato della città, Jude si aspettava di trovarla completamente deserta, ma non fu così. Nel tempo trascorso tra il ritorno di Monday dalla South Bank e la partenza di Jude alla volta della Proprietà, le strade di Londra, che come aveva anticipato Monday risultavano in effetti prive di coppiette di innamorati e di gente allegra, erano state invase da una terza categoria ben più strana di persone: uomini e donne che si erano semplicemente alzati dai loro letti e si erano messi a vagare per la città. Quasi tutti erano soli, come se l'inquietudine che li aveva spinti fuori nella notte fosse troppo dolorosa da condividere. Alcuni erano vestiti da ufficio: giacca e cravatta, gonna e scarpe comode. Altri indossavano il minimo indispensabile; molti erano a piedi scalzi, o addirittura a torso nudo. Vagavano tutti con la stessa andatura molle, gli occhi rivolti in alto, al cielo.
Per quel che Jude riusciva a vedere, i cieli non avevano nulla di strano da mostrare. Vide alcune stelle cadenti, ma questo non era inusuale in una chiara notte d'estate. Poté solo immaginare che quelle persone avessero in testa l'idea che la rivelazione dovesse venire dall'alto e che, essendosi alzate con l'irrazionale sospetto che una simile rivelazione fosse imminente, fossero usciti a cercarla.
La scena non cambiò molto quando raggiunsero la periferia. Uomini e donne normali, con i loro indumenti da notte, stavano agli angoli delle strade o sui prati antistanti le case, e guardavano il cielo. Più loro si allontanavano dal centro di Londra o forse da Clerkenwell, più il fenomeno perdeva evidenza, per ripresentarsi con tutto il suo vigore quando i due raggiunsero i sobborghi del villaggio di Yoke, nel cui ufficio postale, solo pochi giorni prima, Jude e Gentle erano entrati per ripararsi dalla pioggia. Passando lungo i viali che allora aveva percorso sotto la pioggia, Judith ricordò l'ingenua ambizione con la quale era tornata nel Quinto: la possibilità di un riavvicinamento tra lei e Gentle. Ora stava ripercorrendo la stessa strada con tutte le speranze infrante, portando in grembo un figlio che apparteneva al suo nemico. La sua relazione con Gentle, durata duecento anni, era irrimediabilmente finita.
Intorno alla Proprietà erano cresciute tante sterpaglie che, per raggiungerne l'ingresso, ci volle ben più del bastone di cui si era servito Estabrook. Nonostante fossero in fiore, tutte quelle piante puzzavano di rancido, come se marcissero alla stessa velocità con cui crescevano, come se i boccioli anziché fiorire imputridissero. Sciabolando a fatica a destra e manca con il coltello, Monday aprì una strada fino ai cancelli e poi, attraverso la lamiera ondulata, entrarono nel parco. Anche se l'ora si addiceva più alle falene e alle civette, il parco rigurgitava di ogni genere di animali diurni. Gli uccelli vagavano facendo cerchi nell'aria come se un cambio improvviso di poli avesse fatto perdere loro l'orientamento e li avesse resi ciechi ai loro nidi. Moscerini, api, libellule e tutte le specie più varie di insetti estivi svolazzavano sull'erba illuminata dalla luna in disperata confusione. Proprio come la gente che fissava il cielo nelle strade appena attraversate, anche la Natura sembrava avvertire l'imminenza di un evento, e non poteva riposare.
Il senso d'orientamento di Jude, invece, funzionò bene. Anche se i boschetti sparsi davanti a loro sembravano tutti uguali nella luce blu-grigia della sera, lei si diresse con sicurezza verso il Rifugio, arrancando insieme a Monday. Mentre camminava, Monday fischiava con la stessa beata indifferenza ritentando la melodia udita da Clem poche ore prima.
"Sai che cosa succederà domani?" gli chiese Jude, quasi invidiando quella sua strana serenità.
"Be' sì, più o meno," disse lui. "Vedi, ci sono questi Paradisi, e il Capo ci farà andare là. Sarà bellissimo."
"Non hai paura?" chiese ancora lei.
"Di cosa?"
"Cambierà tutto."
"Bene," disse lui. "Sono stanco di come stanno andando le cose."
Poi riprese a fischiettare e proseguì nell'erba per altri cento metri, finché un suono più insistente del suo sibilo lo fece tacere. "Ascolta."
Mentre si avvicinavano al boschetto, l'attività nell'aria e nell'erba era aumentata.
"Uccelli e api," osservò Monday. "E ce n'è un casino."
Proseguendo, le dimensioni di quell'assemblea animale divennero sempre più evidenti. Anche se la luce lunare non penetrava il fogliame molto in profondità, si vedeva che tutti i rami degli alberi intorno al Rifugio, fino al più piccolo, erano pieni di uccelli. L'odore di quella massa trafisse loro le narici, il frastuono le loro orecchie.
"Ci cacheranno generosamente sulla testa," disse Monday, "Oppure verremo punti a morte."
Gli insetti formavano ora un velo vivente tra loro e il boschetto, così fitto che dopo pochi passi i due rinunciarono a scacciarli, e lasciarono che gli si spiaccicassero sulla fronte e sulle guance, che gli svolazzassero tra i capelli, pur di accelerare e proiettarsi a tutta velocità verso la meta. Ora c'erano uccelli anche nell'erba, cittadini comuni cui era stato negato un seggio nel Parlamento dei rami. Si levarono in una nuvola stridente davanti ai corridori, e il loro allarme provocò un'ondata di terrore negli alberi. Cominciò l'ascesa fragorosa di una massa di vita talmente vasta che la violenza del suo movimento faceva cadere le foglie tenere dai rami. Quando Jude e Monday raggiunsero l'angolo del boschetto, stavano correndo attraverso una duplice pioggia: una verde e cadente, l'altra che ascendeva, piena di piume.
Accelerando ancora, Jude superò Monday e si diresse dietro l'angolo del Rifugio le cui mura verso la porta erano nere di insetti, Sulla soglia si arrestò. All'interno c'era un piccolo fuoco acceso, vicino al bordo del mosaico.
"Qualche stronzo è arrivato qui per primo," osservò Monday.
"Non vedo nessuno."
Il ragazzo indicò una massa che giaceva per terra dietro al fuoco. I suoi occhi, più avvezzi di quelli di lei a vedere la vita negli stracci, avevano scovato colui che aveva acceso il fuoco. Judith entrò nel Rifugio, certa dell'identità di quella creatura ancora prima che essa sollevasse la testa. Come poteva non sapere chi era? Era già arrivato inaspettatamente altre tre volte, una lì, una a Yzordderrex, e una più recentemente, nella Torre della Tabula Rasa, come per provare ciò che non molto tempo fa aveva affermato: che le loro vite si sarebbero perpetuamente intrecciate, perché loro due erano la stessa cosa.
"Dowd?"
Lui non si mosse.
"Coltello," disse a Monday.
Lui glielo passò e, armata, Jude avanzò attraverso il Rifugio verso il fagotto. Le mani di Dowd erano incrociate sul petto, come se si accingesse a spirare proprio in quel posto. Aveva gli occhi chiusi, ma erano l'unica parte del suo viso a esserlo. Quasi ogni altro punto era stato aperto dall'attacco di Celestine, e a dispetto delle sue leggendarie capacità di recupero, stavolta Dowd non era stato in grado di guarire le ferite. Era completamente scarnificato. Però respirava, anche se debolmente, ed emetteva ogni tanto dei gemiti, come se stesse sognando punizioni o vendette. Jude fu quasi tentata di ucciderlo nel sonno e di liberarsi seduta stante di quel triste impiccio. Ma era curiosa di sapere perché fosse lì. Aveva tentato di tornare a Yzordderrex e aveva fallito, oppure stava aspettando l'arrivo di qualcuno con cui aveva appuntamento? In quei tempi così incerti ognuna delle due possibilità aveva la sua importanza, e anche se nel suo formidabile risentimento Judith si sentiva perfettamente in grado di ucciderlo, rimaneva il fatto che Dowd era sempre stato un emissario di animi ben più grandi di lui, per cui poteva ancora rivestire una qualche utilità come messaggero. Jude gli si accucciò accanto e ripeté ancora il suo nome, sovrastando il frastuono degli uccelli tornati ad appollaiarsi sul tetto. Lui aprì lentamente gli occhi, aggiungendo le lacrime all'umidore delle sue carni scoperte.
"Guardati," disse. "Tesoro, sei radiosa." Era una battuta da commedia popolare e, nonostante le sue condizioni penose, la recitò con slancio. "Io, naturalmente, sembro un cumulo di stereo. Vuoi venire più vicina? Non ho nemmeno la forza di parlare."
Judith esitò. Anche se al limite dell'estinzione, quell'essere aveva in sé una malignità infinita e, con i frammenti del Cardine infissi nella carne, possedeva di sicuro ancora il potere di fare del male.
"Ti sento perfettamente bene dal punto in cui mi trovo," disse lei.
"A questo volume riuscirò a dire un centinaio di parole," mercanteggiò Dowd. "Il doppio se sussurro."
"Che cosa ci resta da dirci?"
"Ah," rispose lui. "Tante cose. Tu credi di aver sentito le storie di tutti, non è vero? La mia, quella di Sartori, quella di Godolphin. Ora anche quella del Riconciliatore. Ma te ne manca una."
"Oh, davvero?" disse lei, con aria indifferente. "E quale?"
"Vieni più vicina."
"L'ascolterò da qui, o non l'ascolterò affatto."
Dowd la guardò strizzando gli occhi. "Sei proprio una puttana."
"E tu stai sprecando fiato. Se hai qualcosa da dire, dilla. Di chi è la storia che mi manca?"
Prima di risponderle, Dowd prese tempo, per creare un effetto drammatico. Infine disse: "Quella del Padre."
"Che Padre?"
"Ce n'è più di uno? Hapexamendios. L'Originario. L'Imperscrutato. Colui che abita il Primo Dominio."
"Tu non conosci quella storia," disse Judith.
Lui allungò le braccia con improvvisa velocità, e prima che Judith potesse spostarsi, con la mano le aveva afferrato il braccio. Monday vide l'attacco e si avvicinò di corsa, ma lei lo fermò prima che si scagliasse su Dowd, e lo mandò di nuovo a sedere vicino al fuoco.
"È tutto a posto," gli disse. "Non mi farà del male. Non è vero?" Studiò Dowd. "Allora?" continuò. "Non puoi permetterti di perdermi. Sono quel che resta del tuo pubblico, e lo sai. Se non racconti questa storia a me, non la racconterai a nessuno. Non da questa parte dell'Inferno."
Dowd accettò serenamente il suo punto di vista. "Vero," disse.
"Allora dilla. Togliti questo fardello."
Dowd respirò affannosamente, poi cominciò. "Sai, una volta l'ho visto," disse. "Il Padre dell'Imagica. E venuto da me nel deserto."
"Ti è apparso di persona, non è vero?" disse lei, chiaramente scettica.
"Non esattamente. Nel Primo l'ho sentito parlare. Ma l'ho intravisto nell'Annullamento."
"E che aspetto aveva?"
"Da quello che ho potuto vedere, sembrava un uomo."
"O da quello che hai immaginato."
"Forse l'ho immaginato," disse Dowd. "Ma non ho immaginato ciò che mi ha detto..."
"Che ti avrebbe innalzato. Che ti avrebbe eletto Suo mezzano. Tutto questo me l'hai già raccontato, Dowd."
"Non solo," disse lui. "Dopo averlo visto, sono tornato nel Quinto, usando i feit che Lui mi suggerì per attraversare l'In Ovo, e poi ho cercato per tutta Londra una donna che fosse benedetta tra le donne."
"E hai trovato Celestine?"
"Sì. Ho trovato Celestine; a Tyburn per essere precisi, mentre assisteva a un'impiccagione. Non so perché ho scelto lei. Forse perché si è messa a ridere quando l'uomo ha baciato il cappio, e io ho pensato: questa donna non è una sentimentale; non piangerà e non si lamenterà se verrà portata in un altro Dominio. Non era bella, nemmeno allora, ma aveva un nitore... capisci? Come certe attrici. Poche. Quelle grandi almeno. Un viso in grado di esprimere emozioni estreme senza sembrare patetico. Forse ero un poco infatuato di lei..." Tremò. "Ero capace anche di questo quando ero più giovane. Allora... l'ho conosciuta e le ho detto che volevo mostrarle un sogno vivente, una cosa che non avrebbe mai dimenticato. Al principio ha resistito, ma a quei tempi ero in grado di convincere chiunque, e lei si lasciò suggestionare e portare via. Fu un viaggio infernale. Quattro mesi attraverso i Domini. Ma alla fine la portai lì, all'Annullamento..."
"E cosa successe?"
"Si aprì."
"E poi?"
"Ho visto la Città di Dio."
Finalmente qualcosa di interessante. "Com'era?" chiese lei.
"Ho potuto dare solo una sbirciata..."
Jude gli aveva negato ostinatamente la sua vicinanza, ma ora si chinò su di lui e ripeté la domanda a pochi centimetri dal viso straziato. "Com'era?"
"Vasta e luminosa e splendida."
"Dorata?"
"Di tutti i colori. Ma è stata solo un'occhiata. Poi tutte le mura parvero scoppiare, e qualcosa ha afferrato Celestine portandola via."
"Hai visto cos'era?"
"Ho cercato spesso di ricordare. A volte penso che fosse come una rete; a volte come una nuvola; non so. Qualsiasi cosa fosse, l'ha presa."
"Naturalmente tu avrai cercato di aiutarla," disse Jude. . "No, mi sono cacato addosso e sono strisciato via. Cosa potevo fare? Lei apparteneva a Dio. E, in fin dei conti, non era la fortunata?"
"Rapita e violentata?"
"Rapita, violentata e trasformata in divinità. Invece io, che avevo fatto tutto il lavoro, cos'ero io?"
"Un pappone."
"Sì. Un pappone. In ogni caso lei ha avuto la sua vendetta," disse Dowd acidamente. "Guardami!"
Questo era vero. La vita che Oscar e Quaisoir non erano riusciti a spegnere in Dowd era stata praticamente sradicata da Celestine.
"Allora è questa la Storia del Padre?" chiese Jude, "In gran parte la conoscevo già."
"Questa è la storia. Ma qual è la morale?"
"Dimmela tu."
Dowd scosse leggermente la testa. "Non so se mi stai prendendo in giro o no."
"Ti sto ascoltando, no? Sii grato anche delle piccole carità che ti vengono fatte. Potresti giacere lì senza un pubblico."
"Anche questo era scritto, non è vero? Potevi venire qui quando ero già morto. Forse potevi non venire qui affatto. Ma le nostre vite si sono incontrate un'ultima volta. È un modo del destino per invitarmi a confessare."
"Confessare cosa?"
"Te lo dirò." Dowd emise ancora un respiro affaticato. "Per tutti questi anni mi sono chiesto: perché Dio raccatta uno squallido attorucolo dall'immondizia e lo spedisce attraverso tre Domini per trovargli una donna?"
"Voleva un Riconciliatore."
"E non poteva trovare una donna nella sua città?" disse Dowd. "Non è un po' strano? E inoltre, che cosa gli importa se l'Imagica è riconciliata o no?"
Questa era una bella domanda, pensò Judith. Quel Dio, che si era segregato nella sua stessa città e non mostrava alcun desiderio di aprire il muro tra il suo Dominio e gli altri, faceva però tutti quegli sforzi per procreare un figlio che quel muro avrebbe abbattuto.
"È certamente strano," disse lei.
"Lo dico anch'io."
"E tu hai una risposta?"
"Non esattamente. Credo però che debba esserci uno scopo, non credi? Perché, altripenti, affrontare tante difficoltà?"
"Un complotto..."
"Gli Dei non complottano. Creano. Proteggono. Condannano."
"E Lui cosa sta facendo?"
. "È questo il punto. Forse tu puoi scoprirlo. Forse gli altri Riconciliatori lo hanno già fatto."
"Gli altri?"
"I figli che ha mandato prima di Sartori. Forse si sono resi conto di quello che intendeva fare e hanno rifiutato di obbedirgli."
Altro pensiero interessante.
"Forse Cristo non è morto salvando l'uomo mortale dai suoi peccati..."
"... ma da suo Padre?"
"Sì."
Jude ripensò alle scene che aveva visto nella Coppa Bostop, il terribile spettacolo della città, e molto probabilmente del Dominio, che venivano sopraffatti da una grande oscurità. Il suo corpo, che era caduto preda di un attacco di convulsioni tormentoso, si era immobilizzato improvvisamente. Non era panico, né frenesia; solo un profondo e freddo terrore.
"Che cosa devo fare?"
"Non lo so, carina. Sei libera di fare qualunque cosa, ricordi?"
Poche ore prima, seduta sul gradino con Clem, il fatto di non avere un posto nel Vangelo della Riconciliazione l'aveva depressa. Ma ora pareva che proprio quel fatto le offrisse qualche fragile speranza. Come Dowd era stato tanto ansioso di affermare quando erano stati insieme nella Torre, lei non apparteneva a nessuno. I Godolphin erano morti, come anche Quaisoir. Gentle era andato a ripercorrere il cammino di Cristo, e Sartori stava costruendo la sua Nuova Yzordderrex, o forse si scavava la fossa in cui morire. Lei era da sola, e in un mondo in cui tutti gli altri erano accecati da ossessioni e obblighi, quella era una condizione privilegiata. Forse lei era l'unica a poter vedere tutta la storia con distacco e a poter emettere un giudizio libero da ogni obbligo di fedeltà.
"Che razza di scelta," disse Judith.
"Forse faresti meglio a dimenticare quello che ho detto, carina," disse Dowd. La sua voce diventava più fioca a ogni frase, ma conservava come meglio poteva il suo tono spavaldo. "Sono solo pettegolezzi di un attore dilettante."
"Se tento di bloccare la Riconciliazione..."
"Volerai davanti al Padre, al Figlio e probabilmente anche allo Spirito Santo."
"E se non lo facessi?"
"Sarai responsabile di tutto quello che accadrà."
"Perché?"
"Perché..." la forza della sua voce era ora tanto diminuita al punto che veniva sovrastata dal rumore del fuoco acceso da Dowd "... perché penso che solo tu possa fermare tutto..."
Mentre parlava, la presa della sua mano sul braccio di Judith si affievolì. "... Bene..." disse, "... questa è fatta..." I suoi occhi iniziarono a chiudersi. "Un'ultima cosa, tesoro," disse ancora.
"Sì?"
"Forse è chiedere troppo..."
"Di che si tratta?"
"Mi chiedevo... potresti... perdonarmi? So che è assurdo... ma non voglio morire con te che mi disprezzi..."
Judith pensò alla scena crudele che Dowd aveva recitato con Quaisoir, quando sua sorella aveva chiesto un po' di riguardo. Mentre esitava, lui ricominciò a bisbigliare.
"Noi eravamo... solo un poco... uguali, sai?"
Allora Jude allungò la mano per toccarlo, per confortarlo come poteva ma prima che le sue dita lo raggiungessero, Dowd smise di respirare e i suoi occhi si chiusero. Ci fu, da parte di Jude, un lieve gemito. Anche se non riusciva a spiegarsene il motivo, provò un senso di perdita per la sua morte.
"C'è qualcosa che non va?" chiese Monday.
Judith si alzò in piedi. "Dipende dai punti di vista," rispose, prendendo in prestito dall'uomo ai suoi piedi un'aria di fatalismo da commediante. Era un tono che nelle prossime ore sarebbe stato sicuramente utile. "Hai una sigaretta?" chiese a Monday.
Monday estrasse il pacchetto e glielo lanciò. Lei ne prese una, gli rilanciò il pacchetto e tornò al fuoco, chinandosi a raccogliere un rametto ardente per accenderla.
"Cosa è successo al nostro amico?"
"È morto."
"E ora cosa facciamo?"
Davvero: che fare? Se mai una strada si biforcava, questo era il caso. Doveva impedire la Riconciliazione (non sarebbe stato difficile: le pietre erano ai suoi piedi) e lasciare che la storia la chiamasse distruttrice? O doveva lasciare che la cerimonia andasse avanti, rischiando la fine di tutte le storie, e di tutti i futuri?
"Quanto manca all'alba?" chiese a Monday.
L'orologio che il ragazzo portava al polso faceva parte del bottino che aveva riportato a Gamut Street dopo la sua prima uscita. Lo consultò con un ampio gesto del braccio.
"Due ore e mezzo," disse.
C'era così poco tempo per agire, e ancor meno per prendere una decisione. Se fosse ritornata a Clerkenwell con Monday si sarebbe preclusa ogni via d'uscita: almeno di questo era sicura. Gentle era diventato l'emissario dell'Imperscrutato, e ora non si sarebbe fatto distogliere dalle occupazioni di suo Padre, specialmente per dar credito alla parola di un uomo come Dowd, che aveva trascorso la vita ignorando la verità. Gentle avrebbe detto che la confessione di Dowd era stata la sua vendetta sui viventi: un ultimo disperato tentativo di compromettere una gioia che sapeva di non poter condividere. E forse era vero; forse lei era stata ingannata.
"Raccogliamo queste pietre o no?" chiese Monday.
"Credo che dovremmo farlo," rispose lei, ancora pensierosa.
"A cosa servono?"
"Sono... come scalini," disse Judith, con voce incerta mentre un pensiero la colpiva.
Erano effettivamente degli scalini. Erano la strada del ritorno a Yzordderrex, che improvvisamente le apparve come una strada aperta, lungo la quale avrebbe potuto trovare una guida, in quelle ultime ore, che l'avrebbe aiutata a fare una scelta.
Gettò la sigaretta nei tizzoni e disse: "Monday, dovrai riportare le pietre a Gamut Street da solo."
"Dove vai?"
"A Yzordderrex."
"Perché?"
"E troppo complicato da spiegare. Ma devi giurarmi che farai esattamente come ti dico."
"Sono pronto," rispose lui.
"Bene. Ascolta. Quando sarò partita, voglio che tu riporti le pietre a Gamut Street, e che con esse porti un messaggio. Devi consegnarlo personalmente a Gentle, capisci? Non lo affidare a nessun altro. Nemmeno a Clem."
"Capisco," disse Monday, radioso per la gioia di quell'onore inatteso. "Che cosa devo dirgli?"
"Per prima cosa, dove sono andata."
"Yzordderrex."
"Esatto."
"Poi digli..." riflette per un attimo "... digli che la Riconciliazione non è sicura, e che non deve cominciare la cerimonia finché non mi metto in contatto con lui."
"Capito. C'è altro?"
"È tutto," disse lei. "Ora quello che mi rimane da fare è trovare il cerchio."
Iniziò a scrutare il mosaico, cercando le sottili differenze di tonalità che ne caratterizzavano le pietre. Per esperienza sapeva che una volta che fossero state sollevate dal loro posto, l'Espresso di Yzordderrex si sarebbe messo in moto, perciò disse a Monday di aspettare fuori finché non fosse partita. Ora il ragazzo sembrava preoccupato, ma Judith gli disse che non le sarebbe successo nulla.
"Non è questo," replicò lui. "Voglio sapere cosa significa il messaggio. Se mandi a dire al Capo che la cosa non è sicura, significa che non aprirà i Domini?"
"Non lo so."
"Ma io voglio vedere Patashoqua e L'Himby e Yzordderrex," insisté Monday, pronunciando quei nomi come se fossero formule magiche.
"Questo lo so," disse lei. "E credimi, desidero che i Domini vengano aperti quanto lo vuoi tu."
Studiò il viso del ragazzo alla luce del fuoco morente, cercando di vedere se si era calmato, ma nonostante la giovane età Monday era un maestro di dissimulazione. Jude doveva solo sperare che egli avesse posto il suo compito di messaggero al di sopra del suo desiderio di vedere l'Imagica, e che avrebbe ripetuto almeno l'essenza del suo avvertimento, se non proprio le sue precise parole.
"Devi far capire a Gentle il pericolo in cui si trova," insisté, sperando in quel modo di indurlo alla massima scrupolosità.
"Lo farò," rispose lui, leggermente irritato dalla insistenza di lei.
Judith lasciò cadere il discorso e tornò a cercare le pietre. Monday non le offrì la sua assistenza ma arretrò fino alla porta, dalla quale le chiese: "Come farai a tornare?"
La donna aveva già trovato quattro delle pietre, e gli uccelli sul tetto avevano cominciato un nuovo stridulo concerto: sentivano provenire i fremiti di un mutamento.
"Affronterò il problema quando sarà il momento," replicò Jude.
Gli uccelli si levarono improvvisamente in volo e, inquieto, Monday uscì dal Rifugio. Jude gli lanciò un'ultima occhiata mentre estraeva un'altra pietra. Il vento aveva fatto sollevare le ceneri, che ora si addensavano in una nuvola nera. Jude scrutò il mosaico, accertandosi di non aver tralasciato qualche pietra, ma pruriti e dolori che le ricordavano la sua prima traversata le stavano già attraversando il corpo e l'avvertivano che il viaggio era già in atto.
In quello stesso luogo Oscar le aveva detto che i disagi della traversata diminuivano a ogni viaggio, e le sue parole si rivelarono veritiere. Mentre le pareti intorno a lei si sfocavano, ebbe ancora il tempo di dare un'occhiata alla porta attraverso le ceneri mulinanti e di rendersi conto che forse aveva guardato il mondo per l'ultima volta. Poi il Tempio scomparve e la prese il delirio dell'In Ovo, con i suoi prigionieri che si levavano a legioni per reclamarla. Viaggiando da sola si mosse più velocemente di quanto avesse fatto con Dowd (perlomeno questa fu la sua impressione, e si trovò dall'altra parte prima che gli Oviati avessero il tempo di annusare i talloni del suo glifo.
Le mura della cantina di Peccable, il mercante, erano più luminose di quanto lei ricordasse. Fonte di quel chiarore, una lampada che ardeva sul pavimento a un metro dal cerchio. Dietro di essa, una figura con il viso indistinto si avvicinò a lei con un randello in mano e la colpì, facendola cadere svenuta prima ancora che Judith potesse mormorare una sola parola.
54
I
Il mantello della notte stava calando sul Quinto Dominio, e Gentle trovò Sua Rozzezza vicino alla sommità del Monte di Lipper Bayak, intento a osservare gli ultimi colori foschi del giorno cadere dal cielo. Stava mangiando, da una ciotola che teneva tra i piedi, salsicce e cetrioli sottaceto, che prima intingeva in una grossa scodella di senape. Anche se Gentle era arrivato lì sotto forma di proiezione (il suo corpo era seduto a gambe incrociate nella Stanza della Meditazione a Gamut Street), non aveva bisogno né dell'olfatto né del gusto per apprezzare il sapore piccante del pasto di Sua Rozzezza: era sufficiente l'immaginazione.
Quando Gentle gli si avvicinò, Sua Rozzezza alzò lo sguardo, per niente importunato dal fantasma che lo osservava mangiare.
"Sei in anticipo, direi," osservò, guardando l'orologio da tasca che gli pendeva dalla giacca appeso a un pezzo di spago. "Abbiamo ancora molte ore."
"Lo so. Sono solo venuto..."
"... a controllare," concluse per lui Sua Rozzezza, con l'agro del sottaceto nella voce. "Be', io sono qui. Nel Quinto siete pronti?"
"Quasi..." disse Gentle, abbastanza nauseato.
Anche se aveva viaggiato a quel modo innumerevoli volte come Maestro Sartori e aveva riappreso la tecnica abbastanza facilmente, quella sensazione era dannatamente strana.
"Che aspetto ho?" chiese a Sua Rozzezza, ricordando mentre lo diceva come una volta avesse tentato di descrivere il mystif su quegli stessi pendii.
"Immateriale," replicò Sua Rozzezza, alzando gli occhi socchiusi su di lui e tornando poi al suo pasto. "Ma mi sta bene, perché le salsicce non bastano per due."
"Sto ancora cercando di abituarmi alle mie facoltà."
"Bene, non ci mettere troppo," disse Sua Rozzezza. "Abbiamo un sacco di lavoro da fare."
"La prima volta che sono stato qui mi sarei dovuto rendere conto che tu eri parte del piano. Ma non l'ho fatto, e te ne chiedo scusa."
"Scuse accettate," disse Sua Rozzezza.
"Devi aver pensato che fossi pazzo."
"Di sicuro mi hai sconcertato. Mi ci sono voluti giorni per comprendere la ragione di quella tua dannata aggressività. Pie mi parlò, sai; cercò di farmi capire. Ma io avevo atteso qualcuno del Quinto per tròppo tempo, e sono stato ad ascoltarlo con un orecchio solo."
"Probabilmente Pie sperava che incontrandoti mi sarei ricordato di chi diavolo ero."
"Quanto tempo ci è voluto?"
"Mesi."
"È stato il mystif a nasconderti a te stesso?"
"Sì, naturalmente."
"Be', ha fatto un lavoro fin troppo buono. A proposito, dov'è il tuo corpo?"
"Nel Quinto."
"Segui il mio consiglio, non lo lasciare troppo a lungo. A me di solito le budella si ribellano, e quando torno mi ritrovo seduto nella merda. Naturalmente potrebbe essere una debolezza personale."
Sua Rozzezza scelse un'altra salsiccia e la masticò mentre chiedeva a Gentle perché diavolo avesse lasciato al mystif il dominio della sulla sua memoria.
"Sono stato un codardo," replicò Gentle. "Non riuscivo ad affrontare il mio fallimento."
"È difficile farlo," disse Sua Rozzezza. "Io ho vissuto tutti questi anni chiedendomi se non avrei potuto salvare il mio Maestro Uter Musky qualora avessi avuto una mente più sveglia. Ne sento ancora la mancanza."